Mattarella: «Il 2 Giugno, è la festa degli italiani e della libertà di scelta»
Mattarella: con il diritto di tutti al voto,la Festa della Repubblica celebra il salto di qualità del Paese. L’Italia è molto migliore di come la si dipinge
L’8 marzo 1977 il Parlamento cancellò la festa della Repubblica «per esigenze di risparmio». Solo nel 2001, su impulso di Carlo Azeglio Ciampi, il compleanno laico dell’Italia fu riabilitato. In via definitiva stavolta, dopo certi intermittenti, ma effimeri, recuperi. Quell’eclissi sulla svolta istituzionale del 1946, per la quale qualcuno parlò di «eutanasia della nazione», era un indizio di scarsa autostima degli italiani in quanto comunità? La prova di un congenito torpore patriottico? Un segno che le memorie divise del primo dopoguerra restavano, nelle coscienze, divise? Nell’anniversario del voto popolare che cambiò la forma-Stato (e mentre si dibatte intorno a un altro referendum, per ottobre, di cui non vuole in un’occasione simile discutere) condividiamo qualche riflessione con il capo dello Stato, Sergio Mattarella.
Signor presidente, il 2 giugno è la Festa della Repubblica, la nostra festa nazionale. Sono passati 70 anni dal referendum che sancì la vittoria della repubblica sulla monarchia. Oggi qual è il senso di questa celebrazione?
«Il 2 giugno del 1946, dopo il duro ventennio fascista e la sciagura della guerra, l’Italia entrava a far parte a pieno titolo del novero delle nazioni libere e democratiche. E questo accadde, si badi bene, non soltanto perché la forma repubblicana prevalse su quella monarchica, ma perché, per la prima volta nella storia della nazione, ritrovata la libertà, la partecipazione al voto di tutti, uomini e donne, realizzava una piena democrazia. È stata l’introduzione dell’autentico suffragio universale a far compiere all’Italia il vero salto di qualità, trasformandola in un Paese in cui tutti i cittadini concorrono, in egual misura, a determinare, con il loro voto, le scelte fondamentali della vita nazionale. Furono i cittadini a scegliere la forma di Stato, ad eleggere i membri dell’Assemblea costituente, a determinare la formazione dei governi. Per questo credo che oggi si possa affermare che la festa del 2 giugno è la festa della libertà di scelta: e per questo è la festa che riunisce tutti gli italiani».
È un dato di fatto che la data del 2 giugno non sembra coinvolgere gli italiani con la stessa intensità con cui altri popoli europei, penso alla Francia o all’Inghilterra, vivono le loro feste nazionali. Forse una certa indifferenza è legata al timore che, dopo la sbornia retorica del Ventennio, ogni espressione di patriottismo si confondesse con il nazionalismo, inteso nel senso più gretto?
«Quello di cui lei parla è sicuramente un elemento importante, ma non è l’unico. Il peso opprimente della retorica fascista e, ancora, i guasti del nazionalismo esasperato, sono stati per l’Italia un’eredità storica che ha pesato molto. Ma bisogna anche aggiungere che i Paesi che ha citato (la Francia, l’Inghilterra, potremmo aggiungere la Spagna e tanti altri) hanno una storia nazionale e statuale molto antica. La nostra unificazione ha portato con sé problemi risolti con fatica e lentamente, alcuni dei quali - penso per esempio agli squilibri tra Nord e Sud - fanno ancora sentire il loro peso. L’Italia risentiva grandemente della divisione in blocchi determinata dal nuovo ordine internazionale. La Repubblica ha saputo, però, contenere e assorbire le spinte centrifughe e antisistema, interne (penso al terrorismo e allo stragismo) ed esterne, pur tra ritardi e limiti, preservando le libertà democratiche. Sono passati solo settanta anni, ma se guardiamo al passato possiamo dire che di strada ne abbiamo fatta molta».
Ora, a settant’anni dal referendum che cambiò la forma-Stato e ricompose l’unità degli italiani, lei imprime uno scatto all’analisi storica di quel periodo e lega su un unico filo Resistenza, Repubblica e Costituzione, spiegando che ognuna ha legittimato l’altra «accelerando l’avvenire», per dirla con Gramsci. Se ne parlasse a un giovane, in una lezione di educazione civica, come terrebbe insieme questi tre momenti? «Si tratta di eventi diversi, ma storicamente, politicamente e idealmente collegati. La scelta del 2 giugno, nella rievocazione storica e nel sentire comune, è rimasta meno avvertita di altre. Il succedersi di questi eventi ha fatto sorgere un patriottismo più maturo, fondato sui valori universali di democrazia, libertà, pace, rispetto dei diritti e non più soltanto sull’appartenenza geografica, sugli interessi nazionali o sul sangue. In questo senso il patriottismo repubblicano è stato capace di fare una sintesi avanzata tra le diverse fasi della nostra storia nazionale».
Ma oggi, con le incognite che ci incalzano ai confini dell’Europa e che si aprono dentro la stessa Ue, quanto ci difende ancora il patto nazionale inserito nella cornice repubblicana?
«L’unità nazionale raggiunta nel Risorgimento - che il regime dittatoriale e le vicende della guerra avevano portato a dissoluzione - ha trovato nella Repubblica una consacrazione su basi nuove: non la datata retorica nazionalistica, bensì i valori universali affermati nel contrasto alla barbarie del nazifascismo. La scelta occidentale e l’apertura a una Europa portatrice, per la prima volta, di valori di pace e cooperazione, e non di ostilità, hanno dato sostanza a un percorso di progresso. L’aver saputo evitare i tragici errori del primo dopoguerra ha posto le premesse per un forte progetto europeo in grado, oggi, di poter affrontare i rischi e cogliere le opportunità della globalizzazione: certo, l’Unione Europea non deve ritrarsi dalle sue responsabilità. A sfide globali occorrono risposte globali. Sia il terrorismo, siano le crisi finanziarie, sia il tema delle migrazioni, nessun Paese è in grado di affrontarle da solo. Cornice repubblicana e cornice europea, insieme, sono l’ambito più efficace di iniziativa dell’Italia contemporanea».
In questo primo anno e mezzo da presidente lei ha incontrato molti cittadini. Che idea dell’Italia si è fatto?
«I miei incontri al Quirinale o in giro per il Paese hanno confermato una mia sensazione consolidata: ossia che l’Italia, nel suo complesso, è molto migliore di come noi stessi, a volte, la dipingiamo. Vi sono ovunque, e a tutti i livelli, persone fortemente impegnate per far prevalere la legalità e il senso dello Stato; altre che si occupano concretamente di solidarietà e che danno prova continua di altruismo; altre, ancora, che eccellono in tutti i campi, da quello culturale a quello scientifico, a quello imprenditoriale, nonostante la carenza di fondi o le difficoltà acuite dalla recente crisi economica. Vi sono grandi risorse umane: l’Italia, che deve assicurare a tutti la possibilità di esprimersi adeguatamente, è davvero un grande Paese. Questo, naturalmente, non significa che tutto vada bene. Vi sono segnali di scollamento e di stanchezza. Va recuperato appieno il senso della convivenza, della sorte comune nella nostra società. Vi sono periferie urbane che rischiano di trasformarsi in ghetti di disperazione. Vi sono atti efferati: non posso non pensare, con dolore e raccapriccio, alla giovane arsa viva a Roma nei giorni scorsi. Vi è anche gente indifferente o insensibile, ma la grande maggioranza degli italiani coltiva e manifesta senso di umanità, di generosità, di condivisione e affetto per l’Italia e per la sua Repubblica».
La questione morale pare diventata (più per la forza delle cose che per un progetto), la mission del suo settennato. Non è avvilente che la vita pubblica sia cadenzata da una continua sequenza di scandali?
«La corruzione in Italia - ma non solo in Italia - esiste. È un fenomeno grave, perché divora risorse, nega diritti e mina il rapporto di fiducia tra lo Stato e i cittadini. Ma non sarebbe giusto pensare che tutto il Paese sia così o che sia in balìa della corruzione. Abbiamo anticorpi per combatterla. A differenza di altri luoghi, da noi viene combattuta e, spesso, scoperta e sanzionata. La risposta delle istituzioni esiste e si fa sentire con vigore. Non sempre, ripeto, accade così nel resto del mondo».
La gente apprezza il suo stile antimediatico. Qualcuno dice che lei «non urla, ma alza la voce (tenendola bassa)» e, quando sono in gioco temi cruciali, interviene «con realismo». Poiché però, come spiegava Giuseppe Guarino, «il presidente è stato assunto come un freno al potere della maggioranza e caricato di aspettative che in origine nessuno si era sognato di dargli…», lei è spesso incalzato in modo improprio. È inevitabile questo pressing incrociato? Come lo vive?
«Può accadere nel calore del confronto politico e quindi, in questi casi, occorre non avvertire né, tantomeno, manifestare insofferenza: è sufficiente, quando è necessario, far presente come sia indispensabile rispettare le regole che presidiano la democrazia e che tra queste vi è quella, fondamentale, di non superare i limiti delle proprie competenze. Ogni tanto va ricordato che neppure il presidente della Repubblica può attribuirsi compiti che la Costituzione affida ad altri. Talvolta qualche osservazione sorprende. Mi ha fatto sorridere, per esempio, dopo l’ultimo referendum, sentir dire che chi vota al mattino è un buon cittadino e chi vota nel pomeriggio o di sera lo è un po’ meno. Ma, naturalmente, tutte le considerazioni, anche le più fantasiose, sono legittime».
Marzio Breda
Da www.corriere.it del 2 giugno 2016
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