Da www.avvenire.it del 29 marzo 2013
CICLISMO VERSO LE CLASSICHE
Il ciclismo italiano pedala, ma sempre più con affanno. Domenica c’è il Giro delle Fiandre, la prima delle classiche del nord, e il tricolore si schiera al via con appena tre squadre, su 25, e una quindicina di corridori, su 200 partenti. Ben poca cosa per uno dei Paesi che ha scritto la storia del ciclismo mondiale. Ma le cifre che riflettono il nostro movimento professionistico sono impietose.
Negli ultimi anni si è drasticamente ridotto il numero delle squadre e dei corridori: appena 5 i team e 150 i professionisti, una autentica decimazione, se si pensa che solo lo scorso anno le squadre erano addirittura 11 e gli atleti oltre 200. Una selezione impietosa che diventa ancora più preoccupante quando si va a vedere la situazione delle due squadre più grandi, quelle rimaste nel “Pro teams”, l’esclusivo club a 19 che forma la “Serie A” mondiale: una ha lo sponsor, quindi l’intero portafogli, statunitense; l’altra è finanziata per metà da un’azienda di Taiwan intenzionata, pare, a rilevarne i diritti sportivi già dalla prossima stagione.
La situazione non è più allegra sul fronte delle corse: alcune sono state cancellate, altre sono traballanti. A pagare dazio alla crisi c’è anche la Settimana tricolore (i campionati italiani uniti in un’unica rassegna), scomparsa dopo un decennio di onorata carriera. Da quest’anno ogni categoria torna a organizzarli per conto suo e nei posti più disparati. A farne le spese sarà la visibilità, soprattutto per le categorie minori, decimate anch’esse, di gare e gruppi sportivi. Fra i dilettanti si arriva addirittura al paradosso di non vedersi dare il permesso di gareggiare - in alcune province - perché le strade sono dissestate e si vuole evitare il rischio di denunce in caso di cadute. Ed è a rischio cancellazione anche il Giro d’Italia “baby”, quello degli under 26.
La crisi si sente anche sul versante dei risultati. Negli ultimi anni i corridori italiani hanno vinto solo la Vuelta (Nibali 2011) e la Amstel Gold Race (Gasparotto 2012): la vittoria nelle classiche “monumento” manca dal decennio precedente. Ed è praticamente sparito un settore come la pista, uno dei fiori all’occhiello della scuola italiana: anche qui ci si tiene aggrappati ai risultati sporadici di un paio di atleti. Una decadenza resa ancora più disarmante dalla mancata partecipazione della Nazionale azzurra agli ultimi Mondiali juniores. Ed è semplicistico ricondurre tutti i problemi alla crisi economica, la recessione ne ha solo evidenziato la gravità.
La globalizzazione sta rivoluzionando il mondo del ciclismo e quello italiano fatica a rendersene conto e a rimanere a ruota di altre nazioni, Paesi ciclisticamente più giovani che pedalano senza il peso di oltre un secolo di storia sedimentata sulle gambe e sul cervello. Dalle nostre parti non sono ancora riusciti a trovare una strada per adeguare il ciclismo al nuovo millennio senza mutarne l’essenza. E non si tratta di trovare un compromesso ma una strada nuova per coniugare tradizione e modernità. Un’operazione sicuramente difficile, ma inevitabile, nella quale si sta cimentando - senza grandi risultati - anche l’Uci, il governo mondiale della bici.
Una matassa apparentemente inestricabile. Anche se per l’Italia la situazione assume un aspetto paradossale: il nostro Paese è ancora un punto di riferimento per tante nazioni, al punto che molte squadre hanno stabilito la base operativa proprio nel Belpaese dove, oltre al clima mite, possono sfruttare i tanti specialisti, tecnici, meccanici, massaggiatori e preparatori, che sono ancora fra i migliori al mondo. In Italia c’è la base logistica di molte squadre-nazione come la Astana (Kazakistan), la Katusha (Russia), la Colombia, la Orica (Australia) e la Nippo (Giappone). E solo qualche anno fa il progetto inglese di sviluppo del ciclismo, quel modello che tutti vorrebbero imitare, aveva una base in Toscana dove i giovani imparavano il mestiere.
La situazione diventa ancora più paradossale quando molti nostri dirigenti invitano a seguire l’esempio degli stranieri per cercare di risollevare il pedale azzurro. La realtà è che per molti “manager” la crisi economica è diventata un alibi per la loro inettitudine.
Eppure il mondo della bici, quello italiano in testa, ha avuto il coraggio di affrontare il problema del doping e di limitarlo - dire che è stato debellato è ancora azzardato -, ma non è riuscito a capitalizzare il grande lavoro svolto. Soprattutto a livello di immagine. Il ciclismo non è riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di sport dopato. La piaga, oggi, colpisce prevalentemente i cicloamatori, i dopolavoristi dello sport.
Ma l’orizzonte non è oscuro, i motivi per essere ottimisti ci sono occorrono, però, manager in grado di decifrarli e svilupparli. Il ciclismo, infatti, rimane una grande forza popolare, seconda solo al calcio, ma non riesce a tramutarla in “appeal” per gli sponsor. Sulle strade e davanti alla tv i numeri sono da capogiro rispetto agli altri sport, calcio e Formula 1 esclusi. Vedere per credere. I dati auditel più recenti sono quelli di metà marzo: su Rai 3 la Milano Sanremo ha tenuto davanti allo schermo ben 1.390.000 spettatori (7,49% di share), ma a godersi la corsa in tv c’erano sicuramente più persone tenendo conto che la diretta era iniziata molto prima su RaiSport2 e molti appassionati non avevano cambiato canale. Poco dopo la fine della corsa “90° minuto” ha registrato solo un milione di spettatori in più. Ma quello che spicca è il confronto con il tanto celebrato rugby del giorno prima: la differita in chiaro su La7 (la diretta era andata su Sky) ha registrato 549mila spettatori (2,71%), nonostante la storica vittoria sull’Irlanda nel Sei Nazioni. E il confronto diventa addirittura impietoso se si prendono le cifre del basket: la partita più vista è stata quella fra Varese e Milano in Coppa Italia, a febbraio: 136mila spettatori. Mentre il seguito del ciclismo resta alto anche nelle dirette pomeridiane dei giorni lavorativi, come testimonia la 7ª tappa della Tirreno Adriatico, vista da 643mila spettatori. E senza tener conto delle migliaia di persone assiepate lungo le strade per assistere alla gara dal vivo. Numeri importanti che possono raddoppiare appena si riaffaccerà sulla scena un corridore capace di vincere le grandi corse, un uomo solo al comando nella gara più dura, quella verso la credibilità.
Giuliano Traini
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