RICORDIAMO IL GIORNO DELLA MEMORIA
Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, ha uno dei suoi echi più profondi nel testo di Primo Levi “Se questo è un uomo”. Il libro, ormai un classico, è testimonianza sofferta di chi ha vissuto in prima persona l’orrore dei lager nazisti e ha voluto parlare della completa disumanizzazione subita da tanti prigionieri.
E’ lettura sempre attuale, che può dire ancora molto ai giovani, anzi soprattutto a loro.
Ecco le riflessioni di un studente diciannovenne sul libro di Levi.
Il tema del libro non è la storia della persecuzione nazista nei confronti degli ebrei, non è il racconto della vita nei lager, ma è l’analisi di come si compie l’annullamento dell’umanità che è nell’uomo, di come, privato di ogni dignità esteriore, egli dimentichi di avere una dignità interiore.
Per sopravvivere non occorre essere più o meno bestie, bisogna “capire”, comprendere che per dire “mai” basta dire domani mattina .
I prigionieri di guerra, i criminali, i prigionieri politici, sono ancora uomini, gli ebrei no.
Somogyi, chimico ungherese, muore in un interminabile sogno di schiavitù che gli fa mormorare “Jawohl” ad ogni emissione di respiro e fa dire a Levi di non avere mai compreso, prima di allora, quanto “laboriosa” fosse la morte umana.
Nell’inferno in cui si impara a dimenticare la Provvidenza e si comprende invece il senso dei numeri tatuati sulle braccia, rimane una sola facoltà all’ebreo: superare il proprio consenso a ridurre l’uomo a livello di bestia. Per questo si continua a lavorare, si spera di avere la zuppa dal fondo della marmitta, si ruba a costo della vita per una fettina di pane.
I lager erano nati perché gli ebrei vi morissero, perché nessuno ne uscisse vivo, ma è impossibile che i tedeschi non sapessero. Essi, come dice Levi, non volevano sapere, perché al terrorismo di stato non volevano neppure tentare di resistere, quindi, “non sapendo”, non si ritennero complici.
Tra i sopravvissuti ai lager alcuni non hanno più voluto sentir nominare “la cosa”, altri hanno voluto raccontare l’orrore, chi per giustizia, chi per vendetta. Altri ancora, come Levi, avevano la bruciante necessità di testimoniare ciò che l’uomo può fare all’uomo perché non esiste una parola unica, in nessuna lingua, che possa esprimere il significato di demolizione sistematica dell’uomo psicologicamente e fisicamente. E allora occorre “raccontare”, in un intero libro.
Se il “Diario” di Anna Frank è un viaggio nella psicologia della crescita di una adolescente prigioniera in una soffitta per sfuggire al razzismo , il libro ” Se questo è un uomo” è il racconto di come diventa l’uomo quando l’umanità che è in lui viene uccisa scientemente e metodicamente.
Non è la storia dei lager o della Buna, né dello sterminio, né della ideologia nazista: è la storia di come si cancella lo spirito umano riducendolo ad un istinto bestiale di sopravvivenza.
Contemporaneamente è anche, secondo me, un composto e sofferto, quasi soffocato, inno all’uomo, che, schiavo, votato a morte quasi certa, vivo per istinto e quasi ancor più per casualità, difende con vigore l’ultima facoltà rimastagli: quella di “ricordare”, in modo da ritrovare , almeno a tratti, se stesso.
La denuncia non ha toni drammatici o vendicativi. A tratti, parlando dei tedeschi, lascia trasparire una amara ironia: “I tedeschi sono seri e diligenti”, “L’opera di bestializzazione intrapresa dai tedeschi trionfanti era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti”, e ancora “Nessuno può vantarsi di comprendere i tedeschi”.
Nel lager è vietato tutto e questo “assoluto” porta l’assenza di una qualsiasi legge morale , così appena compare il primo gesto umano, significa che il lager è morto.
L’assenza dell’ira e del lamento nelle parole di Levi mi ha ricordato un libro che amo moltissimo “L’amico ritrovato”. Anche lì non c’è né odio né indiscriminato perdono, perché, come dice Levi, i colpevoli non sono perdonabili a meno che non si ravvedano con i fatti, ma, in questo caso, “un nemico ravveduto cessa di essere un nemico”.
Levi ha iniziato a scrivere in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti perché assalito dalla compagna di ogni momento di tregua: “la pena di ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo”.
Le parole di Levi, il suo stesso modo di titolare i capitoli, il non seguire sempre il filo del succedersi del tempo per raccontare l’uomo che tale non è più, mi hanno talmente coinvolto che ho letto anche le sue interviste rilasciate durante le presentazioni del testo e mi ha colpito la stessa pacatezza linguistica, che riesce però con forza a penetrarci, ponendo dinnanzi a noi ciò che l’etica morale può salvare o deve condannare.
“Superuomini” e “sottouomini”: questo è il perché dei lager, in cui “Una bella giornata” è quella scaldata dal pallido e debole sole polacco di fine inverno.
Andrea Racchella
Classe 5^ B ITAS “Carlo Gallini”- Voghera
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