da: www.avvenire.it del 29 marzo 2012
La rinuncia a ciò che ci allontana dagli altri e da Dio
Per il cristiano la Quaresima - di cui siamo prossimi al culmine - è (anche) tempo di digiuno, di astinenza e di rinunce. Ma se oggi si comprende abbastanza facilmente il senso del digiuno come forma di protesta, per attirare l’attenzione nei confronti di una certa causa, è sul piano religioso che risulta non di rado smarrito il senso di queste pratiche impegnative.
Di più, in certi casi, serpeggia un’obiezione, quella di coloro che interpretano queste pratiche come se il cristianesimo chiedesse di compiacere un Dio maligno, simile alle divinità arcaiche a cui venivano offerti sacrifici umani, come se il cristianesimo concepisse Dio come un sadico che gode delle sofferenze delle sue cavie.
Ora, anzitutto va sottolineato che le pratiche in questione devono essere esercitate in maniera ragionevole; non devono contrastare con la cura di sé, che è doverosa; né devono comportare disprezzo del corpo che, anzi, per il cristianesimo è «tempio dello Spirito» (1 Cor 6,19).
Bisogna anche guardarsi dal rischio dell’autocompiacimento, o da quello di rivendicare al cospetto di Dio una qualche contropartita, ritenendola dovuta come premio per queste rinunce. Né, per il fatto di aver osservato questi doveri, bisogna ritenersi sollevati da altri stringenti doveri verso il prossimo. Come evidenziato da una Nota dell’Episcopato italiano (promulgata nel 1994), c’è «un intimo legame fra il digiuno e la conversione della vita, il pentimento dei peccati, la preghiera umile e fiduciosa, l’esercizio della carità fraterna e la lotta contro l’ingiustizia». Già il libro di Tobia scrive efficacemente: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina con la giustizia!» (Tob 12,8).
Così, il digiuno e l’astinenza non riguardano solo i cibi e le bevande, ma includono anche la rinuncia al superfluo e a ciò che ostacola la dedizione all’altro ed il rapporto con Dio.
Il punto è che le rinunce e la mortificazioni non servono affatto a Dio, bensì a noi. Anzitutto ci aiutano ad apprezzare (o ad apprezzare di più) ciò che di solito abbiamo senza fatica, ciò di cui ci capita di non saper più godere. Già agli albori della filosofia, Eraclito rilevava che apprezziamo la salute quando siamo malati, la luce in confronto col buio, la sazietà se siamo stati affamati. E questo rinnovato apprezzamento, fondamentale per chi vive continuamente nel superfluo, è basilare per rendere grazie al Donatore di tutti i beni.
Inoltre, le rinunce, i digiuni e l’astinenza servono a noi per acquisire l’autodominio: ci aiutano a vincere progressivamente le pulsioni dell’avidità verso le cose materiali, quelle della gola, del tatto, e così via. Mediante queste rinunce, insomma, l’uomo si perfeziona e acquisisce la signoria sulle passioni, guadagnando progressivamente la propria libertà ed autonomia. E quest’ultima non è fine a se stessa, bensì è condizione per esercitare l’amore, che è il compimento della virtù. Per esempio, come diceva Agostino, l’apice della virtù della temperanza è costituito dall’amore che governa giudiziosamente i desideri per custodire il soggetto capace di donarsi pienamente a chi ama, o comunque capace di vivere senza assecondare sempre e comunque i desideri, perché quest’ultimo atteggiamento di consumo si riverbera dalle cose alle persone, che vengono così trattate come mezzi invece che essere rispettate come fini inviolabili.
Infine, come dice la già citata Nota, il digiuno è «segno di partecipazione dei discepoli all’evento doloroso della passione e della morte del Signore». Una partecipazione al trionfo dell’Amore.
Giacomo Samek Lodovici
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