da: www.avvenire.it del 19 marzo 2012
«Il cuore di Genova e quello dei genovesi»
Cari Fratelli e Sorelle,
la solennità di San Giuseppe sta al cuore non solo di tutto il popolo cristiano, ma anche del mondo del lavoro che vede in lui l’esempio di chi vive la propria attività per guadagnarsi il pane, per realizzare le proprie capacità, e per partecipare alla costruzione del bene comune. Per questi motivi, la Chiesa ha grande attenzione al lavoro e segue con discrezione e affetto i lavoratori, qualunque siano le responsabilità di ciascuno. La Diocesi di Genova - nella persona dei Cappellani e degli Arcivescovi che si sono susseguiti negli anni - ha una lunga storia di presenza rispettosa e di rapporto virtuoso con il lavoro nelle alterne vicende che molti di noi ricordano. La Chiesa non ha interessi né privilegi da rivendicare: desidera solo servire nel nome del Vangelo, sorgente di salvezza e garanzia di umanità. Spinta dall’amore per il suo Signore, si spinge sulle vie degli uomini, percorre le strade della nostra Città, entra sommessa nei luoghi della quotidiana fatica, ascolta discreta le confidenze dei singoli e delle famiglie, prega per ognuno, dice una parola religiosa di conforto e di fiducia, di stimolo e di incoraggiamento. Noi non abbiamo soluzioni tecniche da proporre, ma offriamo un’ umile presenza che, mentre indica il cielo, guarda alla terra perché diventi casa più sicura e famiglia più vera. Vorremmo che la nostra parola raggiungesse oggi non solo l’orecchio attento di ciascuno, ma anche la mente e il cuore; e potesse ispirare prospettive e propositi giusti per la nostra Città.
Ma che cosa dire a voi che avete responsabilità grandi e gravi, che operate nei diversi livelli della realtà lavorativa in un’ora invasa da scenari inediti e difficili sfide? In un tempo in cui le certezze di sempre sembrano messe in discussione e l’orizzonte appare poco chiaro? La storia di Genova - lo diciamo ancora una volta a voce alta e forte - è grande e meritata: è un impasto di competenza, di laboriosità, d’impresa, di coraggio nell’artigianato, di ardimento non solo davanti alla distesa del mare con il suo porto, ma anche nella ricerca, nello studio, nella tecnologia avanzata. Ma non si vive di rendita, bisogna misurarsi con le mutazioni incalzanti che costringono a pensare rapidamente e in grande. E allora, Genova a che punto si trova nel cambiamento? Che cosa pensa del suo futuro? Che cosa mette in gioco? Qual è il tuo cuore Città amata? Hai coraggio di uscire dalle sicurezze di ieri, di accelerare il passo, di guardarti attorno per riconoscere le forze migliori e chiamarle a raccolta? Mi dirai che il tuo cuore è pronto e che esprime quello della tua gente. Sì, perché i tuoi cittadini vogliono questo: vedere un orizzonte vero, non delle parole che si ripetono inconcludenti; avere certezze non promesse, perché i tempi stringono e le ristrettezze diventano sempre più pesanti sulle spalle delle famiglie. Tu sai che senza meta le forze dei naviganti si scoraggiano e si affievoliscono, i remi diventano troppo pesanti e le braccia si arrendono: la barca va alla deriva. Ma se appare l’orizzonte vero, allora i sacrifici si moltiplicano e capacità nuove si sprigionano. Anche il cuore dei genovesi, però, deve essere quello di Genova, deve pulsare col suo, altrimenti la Città si affievolisce.
Vorrei allora mettere in rilievo alcuni ritmi del nostro cuore, senza dei quali tutto langue in una esasperante attesa e in un rimbalzo irresponsabile di responsabilità. Alludo ai ritmi della fiducia, della sincerità, del coraggio: il risultato è la coesione. Penso a questi moti del cuore guardando il loro opposto. Se è più importante che l’altro non faccia bella figura, non abbia successo, non meriti plauso per il coraggio e l’intraprendenza, allora la Città si spegne. Se si perde tempo e forze per ostacolare gli altri nel bene, perché non abbiano merito, perché siamo noi a dover brillare, a occupare la scena, allora la Città si deprime. Se si gode nel cogliere le ombre altrui o addirittura si manovra per crearne ad arte, allora la Città si mortifica ed è umiliata. Se non si smette di guardare ogni novità con sospetto, come se ogni iniziativa dovesse nascondere chissà quale speculazione indebita, e se ogni intrapresa deve affrontare l’esasperante corsa a ostacoli dei no pregiudiziali, dei silenzi tattici, allora la Città diventa invivibile e gli investimenti trasmigrano verso lidi più accoglienti e collaborativi. Se ogni progetto di sviluppo deve attendere tempi irragionevoli e affrontare maglie snervanti quanto ingiustificate, o consensi apparenti e resistenze reali in nome di alternative ipotetiche, pretestuose o tardive, allora la Città perde opportunità concrete di lavoro. E’ il groviglio dei sentimenti e degli interessi individualistici o di parte, la sonnolenta inerzia, che bisogna dismettere, vecchi modi di pensare e vecchi costumi che, mentre cercano di mantenere se stessi, affossano Genova e con lei i suoi figli. Per creare futuro dobbiamo mettere in conto anche eventuali disagi temporanei, ma è la visione d’insieme non il proprio particolare che deve ispirare e sostenere. D’altra parte, salvare il particolare a scapito dell’insieme quanto giova al particolare stesso?
Si dice che bisogna ristrutturare le aziende, e questo spesso è vero; ma la ristrutturazione in sé, senza cercare commesse in Italia e per il mondo non crea lavoro. E allora, ridefinire e risanare - mi chiedo - si riduce ad una operazione di finanza oppure è un impegno di reale sviluppo e quindi di crescita lavorativa? Si dice che importante è non perdere posti di lavoro, ed è già un punto fondamentale; ma se la “testa” di un’azienda emigra, il resto del corpo quanto potrà resistere? Si dice che è da difendere la forza lavoro, ed è giusto, ma non ci si può accontentare di questo: se si lascia che la tecnologia prenda le ali, non diventeremo un luogo di assemblaggio? E allora, oltre ad aver perso professionalità e ingegno, quanto sarà sicuro il lavoro residuo? E perché questo non accada è necessario non solo mantenere la tecnologia, ma bisogna investire e farla crescere: quanto più le difficoltà sono grandi tanto più urgente è lo sviluppo, bisogna puntare in alto: conservare, mettere delle pezze, è qualcosa ma è pericoloso. Non penso che la difficoltà più grave sia la ristrettezza delle risorse, mi chiedo se non siano altre ristrettezze a frenare fino allo sfinimento. Perché tante remore, tanti distinguo, tanti sospetti e rimandi? A chi giova lo “status quo”? Non certamente ai lavoratori e alle famiglie. E’ meglio fare piuttosto che parlare, ed è necessario pensare e fare insieme lealmente, senza primazie meschine e irresponsabili. Lo esige la Città, lo chiedono i più esposti, giovani e famiglie.
Cari Amici, grazie per la vostra presenza e per la benevola attenzione: San Giuseppe ci ispiri e ci benedica tutti.
Card. Angelo Bagnasco
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