Quel silenzio sospeso tra la morte e la vita
Lucia Vantini - da www.avvenire.it - sabato 19 aprile 2025
Sono soprattutto le donne ad abitare questo spazio che richiede insieme speranza e resilienza e che le porta a tornare presto davanti a un sepolcro ostruito da una pietra pesantissima
Nel calendario cristiano esiste un giorno sospeso tra la morte e la vita, tra il dramma e la speranza, tra l’orrore e la giustizia. È il Sabato Santo, giorno in cui, senza liturgia, sentiamo comunque di dover celebrare un mondo che spera nonostante tutto. In un silenzio provvisorio, cerchiamo parole buone che riparino le ingiustizie, guariscano le ferite e generino fratelli e sorelle nei luoghi in cui si spara, si violenta, si domina. Attraverso l’immaginario della discesa agli inferi, guardiamo dunque questo tempo. Non è facile custodire il sogno che qualcuno venga di nuovo a rimuovere la pietra dai nostri sepolcri: Gaza è ridotta a una fossa comune dove anche la verità delle cose giace martoriata assieme ai corpi delle vite spezzate. In Ucraina piovono missili sui parchi-giochi, e si continua a morire, a patire, a tremare di paura in Congo, in Somalia, nello Yemen, ad Haiti, nella zona del Sahel. E, guardando vicino, non si fermano i femminicidi, aumenta l’odio per le persone omosessuali o trans, la paura ha rimpiazzato l’ospitalità. Le nuove generazioni si trovano ad affrontare un futuro incerto, con opportunità e possibilità di realizzazione che non corrispondono ai loro sogni ma nemmeno ai loro meriti. Anche la natura soffre a causa del nostro scriteriato modo di abitare il mondo. Il Sabato Santo racchiude però un silenzio particolare, carico di significato. Non dovrebbe essere confuso con quello delle vittime uccise e dimenticate, né con quello delle storie ammutolite nell’emarginazione e nell’ingiustizia.
Non dovrebbe essere confuso nemmeno con la complicità verso una politica incapace di mediare per il bene comune, e che gioca d’azzardo con la vita dei popoli attraverso cacce alle streghe, economie spregiudicate e retate o, peggio ancora, mediante torture e deportazioni.
Nella memoria del vangelo, il silenzio del Sabato Santo non è quello di chi ha gridato invano prima di morire, sentendosi tradito dall’umanità e abbandonato anche da Dio nel momento della sofferenza estrema. È un silenzio abitato da un controcanto di speranza viva, timbrato da quelle forme di insistenza, resistenza e resilienza che hanno portato alcune donne a tornare presto su un sepolcro chiuso da una pietra pesantissima.
In quel controcanto risuonano le voci di chi oggi cerca la pace nella giustizia, di chi si oppone al riarmo, di chi prega coralmente in vista di un mondo ospitale. Sono le voci di donne libere o liberate, come Zahida Parveen che in Pakistan ottiene il diritto di lavorare nonostante sia una donna sposata. Sono le voci provenienti dai villaggi nigeriani che stanno ricevendo per la prima volta l’energia elettrica grazie a microreti solari.
Sono le voci di chi sa raccontare l’amore nella sua essenza di libertà e per quello che è davvero: il mistero affettivo e divino che fa fiorire le vite. Sono le voci di coloro che non tirano Dio dalla propria parte e contro qualcuno, perché per loro la lingua di fuoco è quella che emerge a Pentecoste, quando persone diverse parlano come hanno imparato a casa propria, ma si capiscono e si comprendono lo stesso. Questa lingua ispirata, e tesa alla comunione, muore con le parole scagliate come pietre, ma si deforma anche con certe parole maligne scambiate nei nostri salotti, nelle nostre aule e nelle nostre chiese.
Ci farebbe bene rileggere alcuni testi di Romano Guardini, il filosofo e teologo che si era chiesto che cosa significasse vivere il cristianesimo in un’Europa ferita eppure chiamata a essere «figura spirituale operante» nei luoghi della politica, della cultura, dell’educazione e della fede.
Avremo così finalmente chiaro che non sarà un cristianesimo identitario a salvarci, ma un cristianesimo delle differenze e della speranza ostinata, un cristianesimo che torna coraggiosamente non solo alla sua croce ma alle croci del mondo, riaprendo i sepolcri costruiti da una storia violenta. Il Sabato Santo è tempo di un silenzio capace di liberare il desiderio pasquale, che è desiderio di sentire voci di vita nuova quando tutto sembra perduto.
È dunque questa la speranza che il Sabato Santo ci consegna: che ci sia ancora spazio - per quanto angusto - per la pace e la giustizia nel mondo, e che ogni vita possa contribuire a quel rotolare di pietre che libera le altre, sepolte dal dolore e dall’orrore. Così, mentre le ombre si allungano sul mondo, si intravede un sottile chiarore all’orizzonte. Non è l’alba di un giorno qualunque, ma la promessa di una luce che nessuna tenebra può vincere né contenere.
In questo silenzio gravido di attesa, possiamo ancora essere custodi di un’ostinata e certamente fragile speranza: ci sono germogli oltre la cenere, sentieri accanto ai muri, vita nei luoghi di morte. Il Sabato Santo è il respiro trattenuto di una storia che, nonostante tutto, continua a credere nell’impossibile rivoluzione dell’amore che risorge, sempre, dalle macerie del mondo.
Si tratta solo di coltivare la sapienza che ci consente di abitare una casa comune e di calpestare insieme una terra che non ci appartiene - come ci ricorda l’orizzonte giubilare - e chedà frutti solo se si piantano semi e non bandiere.
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