L’Europa ammalata di mercantilismo
Pietro Saccò - da www.avvenire.it - venerdì 31 gennaio 2025
Quando si vuole rimediare ai propri errori il primo passo è riconoscerli e il secondo dovrebbe essere smettere di farli. Sono due passaggi così semplici da essere fin banali. Non si capisce che cosa stessero ancora aspettando i leader dell’Unione Europea - e su tutti Ursula von der Leyen, presidente della Commissione da più di cinque anni - per affrontarli. Forse i primi schiaffi - politici, non fisici, ma comunque molto concreti - di Donald Trump.
Sono servite le prepotenti minacce di dazi e i ricatti del nuovo presidente americano per fare capire in modo definitivo a Bruxelles che è stato uno sbaglio enorme sperare che l’economia europea potesse vivere di solo export. Nata come mercato unico del carbone e dell’acciaio e cresciuta nei decenni attorno all’idea di mettere assieme i Paesi iniziando sempre dal commercio e dagli scambi, l’Unione Europea di oggi si porta dietro un imprinting mercantilista dal quale non riesce proprio a liberarsi. Secondo questo approccio molto nordeuropeo, che ha nella Germania e nei Paesi Bassi i suoi più grandi sostenitori, il principale motore della crescita economica deve essere la vendita di merci verso l’estero. La firma di accordi commerciali e le politiche utili a favorire l’export del “made in Eu” hanno avuto un ruolo centrale nell’agenda di Bruxelles. A lungo ha funzionato, almeno sul lato del Pil: l’economia europea ha saputo cavalcare bene l’onda della globalizzazione e molte imprese sono riuscite a imporsi come grandi esportatori di prodotti di eccellenza - automobili, moda, cibo, macchinari e impianti - per le nuove imprese e le classi medie e ricche che si andavano formando in Asia e Sudamerica.
Il dibattito sugli effetti che questo puntare tutto sull’export ha avuto sulle nostre società è ancora aperto. Quello sull’evidente tramonto di questo modello economico è iniziato da poco. Nel presentare la “Bussola per la competitività“, Von der Leyen mercoledì ha ripreso la tesi che Mario Draghi ha portato nel suo intervento tenuto al simposio “Centre for Economic Policy Research” lo scorso dicembre: è il momento di «tornare alla crescita domestica» ha avvertito l’ex presidente della Banca centrale europea. Non possiamo più permetterci di tenere bassi i salari per favorire la nostra competitività sui mercati globali, abbiamo bisogno di rilanciare gli investimenti e i consumi interni per recuperare il ritardo accumulato in anni di rigore fiscale, è il senso dell’intervento di Draghi.
Quello che Von der Leyen e Draghi non dicono esplicitamente è che affidare la nostra crescita economica al commercio con gli Stati Uniti e la Cina ci ha resi troppo dipendenti da queste due potenze. I leader europei, forse per ingenuità o forse per tornaconti immediati, hanno creduto alla favola di una globalizzazione armonica, in cui le nazioni cooperavano lealmente per il bene comune e dove inevitabilmente a forza di scambi e consumi la voglia di democrazia avrebbe contagiato tutti i popoli. Una favola che si è sgretolata nell’ultimo decennio, prima un po’ alla volta e poi rovinosamente. Il mercato globale sarà anche “libero”, ma Trump ha appena avvertito che o l’Europa compra più gas americano o sarà colpita da altri dazi.
Non è detto che l’Ue sappia davvero trovare una via d’uscita. La stessa Bussola per la competitività ha punti deboli e briglie, come l’assenza di fondi e la farraginosità del processo legislativo europeo. Ma, soprattutto, quell’Ue che fino a ieri era uno degli alfieri della globalizzazione non sembra capace di adattarsi davvero al nuovo contesto globale. Anche i leader nazionali di molti Paesi europei non riescono ad abbandonare l’idea che la priorità sono gli scambi e il resto viene dopo.
Lo conferma anche il resoconto dell’ultimo viaggio del nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: il risultato più concreto che ha portato la visita in Arabia Saudita sono accordi e contratti per 10 miliardi di euro in settori diversi, compreso quello militare (qui ci sono intese per 2 miliardi di euro). Meloni ha vantato l’avvio di un “partenariato strategico” con Mohamed bin Salman al Saud, che negli anni passati aveva creato un rapporto molto stretto con Matteo Renzi e che era già sul trono nel 2018, quando fu assassinato il giornalista Jamal Khashoggi. L’Arabia Saudita, disse allora Meloni, «è una brutale dittatura che non si fa problemi a usare la tortura e gli omicidi di Stato». A chi le ha ricordato i suoi antichi giudizi, il presidente del Consiglio lunedì ha risposto che «non c’è contraddizione tra quello che io dicevo ieri e quello che faccio oggi. Italia e Arabia Saudita sono due Nazioni che hanno interesse a stringere accordi strategici in materie come l’energia, come il rapporto con l’Africa, come la difesa, come gli investimenti».
Finché facciamo affari e ci conviene giocare insieme, insomma, non possiamo fare troppo gli schizzinosi. Dobbiamo solo sperare che il partner commerciale di turno non esageri nel rendersi impresentabile o non prenda a ricattarci. L’Europa malata di mercantilismo non può permettersi altri Vladimir Putin e - probabilmente - nemmeno altri Donald Trump.
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