Tregua, non pace. Eppure questo germoglio va protetto a tutti i costi
Riccardo Redaelli - da www.avvenire.it - giovedì 16 gennaio 2025
Una tregua firmata più per sfinimento che per convinzione, ma quanto mai necessaria per permettere la liberazione di alcuni ostaggi e per dare un minimo di respiro alla martoriata popolazione palestinese. Senza tuttavia che vi siano grandi speranze sul fatto che da questo accordo temporaneo si avvii un vero processo di pace in Terra Santa.
Dopo sedici mesi di un conflitto che ha fatto di Gaza una immane e vergognosa catastrofe umanitaria, le pressioni perché tanto il governo di ultra-destra israeliano, quanto ciò che rimane della dirigenza di Hamas accettassero l’ennesima bozza di accordo per una tregua si erano fatte sempre più pressanti. Il presidente Biden voleva lasciare la Casa Bianca con un successo da esibire, dopo che la sua amministrazione si era inutilmente spesa per far fermare i terribili bombardamenti israeliani e per far tornare a casa gli ostaggi rapiti il 7 ottobre di due anni fa. Ma anche il subentrante Donald Trump, pur se schierato totalmente con Israele, voleva che si fermassero le armi e per un duplice motivo: da un lato, non vuole rimanere invischiato in un conflitto fin dall’inizio del suo mandato, dopo aver sbandierato che avrebbe risolto le guerre in corso “in 24 ore”. Dall’altro lato, non vuole neppure vedere la sua firma su un accordo con Hamas, osteggiato dalla destra estrema di Israele a cui lui sembra legatissimo. Di una tregua hanno bisogno anche i Paesi arabi moderati - e in particolare le monarchie arabe del Golfo - vicini a Israele ma con le proprie opinioni pubbliche sempre più indignate dai massacri indiscriminati di civili perpetrati dalle forze armate israeliane.
Ma un accordo serve anche a Hamas e allo stesso Israele: il movimento islamista è stato sconfitto militarmente, privato dei suoi leader, disarticolato; insomma ha pagato un prezzo altissimo per il suo criminale attacco contro i civili israeliani del 7 ottobre 2023. E in fondo anche Israele non può pensare di condurre una guerra permanente contro Gaza e i palestinesi: i costi umani ed economici sono pesanti. Lo scorso anno il numero di emigrati da Israele è stato superiore agli ebrei immigrati, un segnale da non sottovalutare che indica il disagio di parte della popolazione per l’estremismo, velato da idee aggressive e razziste, del governo di Tel Aviv.
Ecco, quindi, che la tregua tanto a lungo annunciata e sempre rinviata sembra prendere forma. Ma le speranze che da qui nasca una pace vera, che rimuova le radici profonde del conflitto fra i due popoli, sono molto limitate. Il governo di Netanyahu non solo è diviso già sull’offrire una tregua temporanea, ma ha come suo obiettivo l’occupazione progressiva di ulteriori porzioni della Cisgiordania, con una politica di sostegno alla creazione di nuove colonie israeliane nei Territori Occupati, in flagrante violazione delle risoluzioni Onu. Soprattutto, esso si culla ancora nell’idea irrealistica di “distruggere” per sempre Hamas, nonostante sia evidente che la strage di civili palestinesi di questi due anni non farà altro che dare nuova linfa alle ideologie più estreme: Hamas non si distrugge per via militare, ma la si sconfigge solo con una politica coraggiosa di dialogo con i palestinesi.
Da parte sua, l’Autorità Nazionale Palestinese sembra oggi ridotta a un vuoto simulacro di pura gestione del potere (per di più inefficiente e corrotta): il presidente Mahmoud Abbas, ormai novantenne, non ha saputo costruire una nuova classe dirigente. L’unico personaggio palestinese che avrebbe forse la capacità di ricomporre le fratture e le ostilità che caratterizzano i movimenti politici palestinesi, ossia Marwan Barghouti, è rinchiuso a vita in una prigione israeliana, e non vi sembra essere alcuno spiraglio di rilascio per lui.
Eppure, ogni goccia d’acqua in un deserto è sempre benedetta e certo questo fragile germoglio fra le rovine di Gaza deve essere tutelato e protetto da parte di tutta la comunità internazionale. Nelle prossime settimane ogni attore locale, regionale e internazionale dovrà dare il proprio contributo affinché, muovendo da una tregua temporanea, si giunga a fermare definitivamente le armi e si inizi un cammino serio di ricostruzione e di dialogo. Senza troppe illusioni, ma senza rinunciare a dare una speranza a questa terra tanto martoriata quanto amata.
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