LA MONDARISO
Gent.ma signora quale è stato il periodo in cui è andata alla monda del riso?
Ho cominciato nella prima metà degli anni cinquanta
Quanti anni aveva?
Avevo 14 anni compiuti da tre mesi.
Come avveniva il reclutamento?
Ogni comune, sulla base delle richieste dei “capi-riso”, formava un elenco di tutte le persone disposte ad andare a lavorare alla monda del riso; normalmente erano donne, ma non mancavano gli uomini.
Chi faceva la scelta delle persone?
Ogni capo-riso serviva varie aziende agricole, a cui forniva un numero ben preciso di manodopera,
e, per non fare brutta figura, cercava di scegliere persone con esperienza, soprattutto giovani e quindi più forti, comunque venivano aggiunte anche lavoratrici più anziane che facevano da moderatrici.
Quale era il periodo dell’anno in cui si partiva e quanto durava il periodo di lavoro?
Normalmente verso la fine di maggio ed il periodo di permanenza si aggirava attorno ai 30/35 giorni che potevano aumentare in base alla dimensione della cascina-azienda.
Come avveniva la preparazione alla partenza (in particolare per la prima volta). Qual’era il bagaglio che ogni mondina portava con sé?
Le mamme e le conoscenti che erano già state alla monda del riso consigliavano di utilizzare il cassonetto, che era un mobiletto in legno con maniglie laterali e coperchio apribile munito di appositi ganci per l’inserimento del lucchetto di sicurezza, una specie di cassapanca con dimensioni ridotte: circa 1.00×050x0.60 (el cassunet). Nel cassonetto venivano stipati tutti gli indumenti che si ritenevano necessari principalmente per il lavoro, che erano: il tipico parasole di paglia, i pantaloni tagliati in modo da non arrivare all’acqua della risaia, le calze da donna a cui venivano tolti i piedi e che arrivavano sopra le ginocchia, camice, golfini, teli impermeabili per ripararsi da eventuali acquazzoni, tutti da indossare durante il lavoro anche per difendersi dalle punture delle zanzare, oltre alla normale biancheria intima ed a qualche vestito da indossare alla Domenica. Si cercava di portare anche qualche cibaria non deperibile e che fosse utilizzabile per tutto il periodo della permanenza.
Con quale spirito una ragazza di appena 14 anni affrontava questa esperienza?
Per noi ragazze era una avventura e pensavano di poter scoprire un mondo nuovo, in quanto molte di noi non si erano mai allontanate dalla montagna, avevano conosciuto soltanto la frenesia del mercato settimanale, che era il più importante della vallata. Le più grandicelle e smaliziate pensavano di poter trovare il principe azzurro al di fuori dei soliti giovanotti del paese e dintorni.
Normalmente i capo-riso, per tenere a freno eventuali intemperanze, portavano alcune donne sposate e mature per controllare le più giovani.
Come avveniva il viaggio?
Di norma la partenza avveniva il sabato mattina, per dare modo alle mondine di ambientarsi prima di iniziare la campagna di lavoro che avveniva il lunedì seguente.
Normalmente ci si trovava davanti alle scuole, dove, sui cassoni dei camion, venivamo caricate con i nostri cassonetti e, dopo aver raccolto tutti i gruppi dei vari paesi , venivamo portate alle cascine di destinazione. Durante il viaggio, che durava 4/5 ore, le anziane per passare il tempo intonavano canzoni o raccontavano aneddoti per sostenere le più giovani che partivano con il “groppo in gola”.
Quando arrivavate in cascina come eravate sistemate?
Subito ci accorgevamo che la realtà era molto diversa dalle aspettative. La prima cosa era un senso di isolamento, essendo le cascine lontano da centri abitati e recintate. Il grosso locale che ci ospitava non era altro che un granaio: era la nostra abitazione per tutta la durata della monditura, di norma circa quaranta giorni. Si dormiva su brandine di ferro, con un materasso che non era altro che un grosso sacco di tela pieno di paglia. Accanto tenevamo il nostro cassonetto e si cercava di stare vicino ai propri paesani, per sentire meno la lontananza. I letti venivano preparati con la biancheria portata da casa.
Com’era la cascina?
La prima cosa che colpiva era la casa del padrone, che di solito aveva una struttura diversa dal resto dei fabbricati, molto ben tenuta con un grande porticato sul davanti. Poi si notavano le case dei salariati, che erano come le case a schiera di oggi, con due camere al piano terra e due al primo piano. Ogni casa aveva un ingresso indipendente e una scala interna, un camino, il lavandino per la cucina; la pompa dell’acqua invece era in comune all’aperto. La parte restante della cascina comprendeva la stalla, che era divisa in ambienti per cavalli, buoi, fattrici, vacche da latte e tori da monta. Sopra la stalla c’erano i fienili e davanti un grande porticato che si estendeva per tutta la sua lunghezza. La cosa che colpiva di più era l’aia detta “arone”, che copriva quasi tutta la parte centrale della cascina e lasciava libero solo un passaggio laterale per i carri. L’aia era una grande spianata di cemento o di mattoni rossi che serviva per l’essicazione dei cereali.
C’erano abitanti stabili nelle cascine?
C’erano: mi sono accorta di loro alla domenica quando la campana ha invitato tutti alla Messa. Nel periodo in cui sono andata a fare la mondariso, primi anni cinquanta, nella cascina dove io andavo vivevano circa dieci famiglie di salariati occupati nelle attività dell’azienda e nella manutenzione. Il padrone viveva solo per alcuni periodi dell’anno in azienda. Con l’avvento della meccanizzazione il bisogno di avere tanti salariati fissi veniva meno e il loro numero diminuì di anno in anno.
Come era organizzata la giornata di lavoro?
La sveglia era alle cinque e mezza del mattino. Dopo il caffe e latte che veniva preparato per tutti, si raggiungeva il luogo di lavoro prima delle sette. Si stava sul bordo della risaia e alle sette precise si entrava in acqua. Il primo lavoro consisteva nel raccogliere le piantine di riso dai vivai, farne dei mazzetti e passarli ai raccoglitori per il loro trapianto nelle risaie. Alle nove arrivava il “barloté”, un ragazzo che portava il sacco del pane, veniva data una pagnotta a testa e un pezzo di formaggio o un poco di marmellata. Da bere c’era acqua in una piccola botte detta “berlòt” che aveva attaccata una tazza che veniva usata da tutti. Avevamo quindici minuti per la colazione e poi il lavoro continuava sotto il controllo attento del padrone. Si continuava a trapiantare piantine di riso a distanza precisa, curvate in avanti, camminando all’indietro per non calpestare le piantine appena trapiantate, con i piedi nudi affondati nel fango fin quasi all’esaurimento. Per avere un poco di sollievo, di tanto in tanto, si chiamava il “barloté” per bere un poco d’acqua, ma senza esagerare, perché si era controllate e se non si rendeva sul lavoro si era rimandate a casa. Devo riconoscere che le mie compagne più anziane mi hanno sempre aiutata e sostenuta nei momenti più duri, facendo una parte anche del mio lavoro per fare in modo che restassi in linea con le altre. Sono ancora riconoscente di quella solidarietà e le ricordo oggi, a sessant’anni di distanza, con gratitudine. A mezzogiorno si interrompeva il lavoro, uscivamo dalla risaia e, finalmente all’asciutto, ritornavamo alla cascina per il pranzo. Dopo un piatto di riso e fagioli e un breve riposo alle due si ritornava in risaia fino alle sei. Il pomeriggio era il periodo della giornata più duro, perché oltre il caldo soffocante e umido che toglieva il respiro, la stanchezza si faceva sentire. In questi momenti aiutava molto raccontar storie e intonar canzoni, serviva a scordare la fatica e i disagi. Di tanto in tanto si sentiva la voce del padrone che ci incitava al lavoro “fi andà i man, dòon” e quando, a sera, finiva la giornata sembrava un miracolo. Si tornava alla cascina e finalmente ci si toglieva gli abiti fradici per farli asciugare per il giorno successivo, ci lavavamo e con abiti asciutti andavamo a cenare con il solito piatto di riso. Finita la cena, nonostante la stanchezza, c’era ancora il desiderio, per vincere la nostalgia, di divertirsi. Allora tutte ci riunivamo sull’aia per raccontarci storie o ballare sull’aria di qualche ballata accompagnate dal suono di fisarmonica. Le zanzare erano una moltitudine e per allontanarle si faceva del fumo. Il periodo peggiore per le punture delle zanzare era però al mattino, quando il sole non aveva ancora asciugato la rugiada. Verso le dieci tutte a letto per il meritato riposo. Nello stesso tempo che noi mondine facevamo il nostro lavoro, gli uomini che erano venuti con noi e i salariati della cascina, mietevano il grano, lo trebbiavano e preparavano i nuovi campi per il trapianto del riso. Il lavoro degli uomini era parallelo a quello delle mondine.
Signora, perché vi chiamavano mondine?
Perché noi donne ci occupavamo di trapiantare le piantine di riso e mondare il riso, cioè eliminare dalle risaie tutte le erbe infestanti. Lo facevamo con le mani e i piedi nell’acqua. Oggi tutto questo viene fatto, per fortuna, con diserbanti e macchinari moderni.
In sostanza in cosa consisteva il lavoro e quanto durava?
Durante il periodo di 30/35 giorni, tanto durava il nostro lavoro, la prima parte veniva utilizzata per il trapianto mentre la seconda parte alla monda. Per la monda noi donne partivamo tutte alla pari Tra le erbe da eliminare ce n’era una in particolare, la cosiddetta “pabbio”, simile al riso, e bisognava prestare molta attenzione per non confonderla con il riso stesso. Di queste erbacce venivano fatti mazzetti e con il passamano venivano allogate nei fossi di scolo della risaia. L’operazione richiedeva molta attenzione per non confonderle con le piantine di riso. Tutto avveniva sotto l’attento controllo del padrone.
Come veniva trascorsa la domenica?
Era la giornata di riposo e veniva impiegata per la pulizia dei locali in cui vivevamo e per la pulizia personale. In particolare il bagno si faceva in qualche roggia vicina, senza costume e a turno vigilavamo che nelle vicinanze non ci fossero occhi indiscreti. Fatte queste cose, si indossava il vestito buono e si andava alla messa. Al pomeriggio, a gruppi, andavamo, se c’era, al paese più vicino e, sempre se c’era la possibilità, si ballava. Alla sera si stiravano con il ferro da stiro a legna gli abiti che avevamo lavato al mattino.
Cosa succedeva quando la campagna del riso era finita?
Normalmente, dopo 30/35 giorni di duro lavoro la stanchezza era molta e si contavano le risaie che rimanevano da mondare. Si accoglieva con gioia il termine del lavoro perché la felicità del ritorno a casa era grande. L’ultimo giorno preparavamo il cassonetto, ritiravamo la paga in soldi e il sacchetto di riso dovuto. Aspettavamo con ansia il camion che ci avrebbe riportato ai nostri monti, cantando tutte insieme a squarciagola fino a casa.
Per quanti anni ha fatto la mondariso?
Per 3 anni, poi, con l’evoluzione dell’agricoltura, non è più stata necessaria questa figura di lavoratrice.
Cosa rimpiange di quegli anni?
Sicuramente gli anni della giovinezza, ma anche la bontà d’ animo delle mondine, il cameratismo e la grande solidarietà che esisteva tra di loro e il reciproco aiuto nei momenti di bisogno.
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Mân e pe int’l’acqua, sempâr bagn�
I’oss ch’a fan maal, se da dris�
La testa bàsa, sempâr süd�
La nustalgia pâr la to c�
La schéna cürva, tut la giurn�
Tut pâr un sòogn da realisà
Senti le rane che cantano
(la più conosciuta delle canzoni delle mondariso della Pianura padana)
Senti le rane che cantano
che gusto che piacere
lasciare la risaia
tornare al mio paese
lasciare la risaia
tornare al mio paese.
Amore mio non piangere
se me ne vado via,
io lascio la risaia
ritorno a casa mia.
Non sarà più la capa
che sveglia a la mattina
ma là nella casetta
mi sveglia la mammina.
Vedo laggiù tra gli alberi
la bianca mia casetta
vedo laggiù sull’uscio
la mamma che mi aspetta.
Mamma papà non piangere
non sono più mondina
son ritornata a casa
a far la contadina.
Mamma papà non piangere
se sono consumata
è stata la risaia
che mi ha rovinata.
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