Guerra, chi ci guadagna? I conti record dell’industria bellica
Lucia Capuzzi - da www.avvenire.it giovedì 29 febbraio 2024
Ancor più della corruzione, i conflitti sono capaci di concentrare i benefici in un’esigua minoranza e di ripartire i costi sul resto della società. Non in modo uniforme ovviamente
Chi vince la guerra? Di certo, non gli Stati o gli attori armati che, alla fine, riescono a imporsi sui rivali. Il potere conquistato deve fare i conti con il fardello della ricostruzione, non solo economica. Non è vero, però, che in un conflitto perdono tutti. Alcuni - pochi - trionfano. Una lista esaustiva dei “grandi vincitori” della “terza guerra mondiale a pezzetti” - per parafrasare papa Francesco - è facilmente ricostruibile a partire dagli ultimi dati dello Stokholm international institute for peace (Sipri).
L’escalation in corso - dall’Ucraina a Gaza - ha portato a livelli record la spesa militare: 2.240 miliardi di dollari nel 2022, l’ultimo con rilevazioni ufficiali - i profitti dei colossi delle armi. Per la prima volta, gli investimenti europei hanno superato quelli dei tempi della Guerra fredda. Le 15 maggiori aziende mondiali per la difesa hanno visto schizzare il proprio portafoglio ordini a quota 777 miliardi di dollari, oltre 76 in più rispetto a due anni prima. E in due anni, d’altronde, sono stati investiti quasi mille miliardi di dollari in armamenti, per gli ordigni è stato impiegato il 2,2% del Pil mondiale. Con un F35 che costa come 3.244 letti in terapia intensiva, un sottomarino come 9.180 ambulanze (e sono in alternativa).
Ancor più della corruzione, i conflitti sono capaci di concentrare i benefici in un’esigua minoranza e di ripartire i costi sul resto della società. Non in modo uniforme ovviamente. I cittadini dei Paesi dilaniati dagli scontri sono ovviamente i primi colpiti seppure non tutti allo stesso modo. Bambini, donne, anziani, minoranza, poveri, disabili - i gruppi sociali con meno risorse - pagano un prezzo tragicamente più alto. Perdite indirette - di vario tipo, dai danni ambientali alle ricadute sul commercio globale -, infine, ricadono a cascata anche su quanti risiedono a migliaia di chilometri dal teatro bellico.
Anche solo per questo si può affermare che non esistono guerre giuste, perché giusta può essere solo la pace. Convenienti sì, almeno per qualcuno. Qualcuno con solide relazioni nelle “stanze dei bottoni” e, per questo, in grado di condizionare il dibattito pubblico, facendo apparire lo scontro armato come inevitabile e la sola alternativa. In realtà è una delle scelte possibili, non l’unica. Non si tratta di aspirazioni ingenue di qualche benintenzionato. Fra i primi a sostenerlo - e a puntare il dito verso il “complesso militare industriale” -, è stato il presidente Usa Dwight Eisenhower.
Per quanto poco noti, esistono studi accademici sull’efficacia delle soluzioni nonviolente. La politologa di Harvard Erica Chenoweth - solo per fare un esempio illustre - ha coniato, sulla base di centinaia di analisi empiriche, la regola del 3.5 per cento: nessuna mobilitazione disarmata è mai fallita quando ha riunito il 3,5 per cento della popolazione in modo continuativo. C’è poi la riprova dell’esperienza empirica. Non solo quella dei grandi movimenti nonviolenti, a cominciare dalla rivolta pacifica contro il maggior impero coloniale dell’epoca guidata dal Mahatma Gandhi. Dalla Colombia all’Afghanistan, dal Ruanda al Mindanao, sono le comunità locali a impegnarsi nel lavoro artigianale della costruzione di una pace possibile.
«Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia» scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2016, dedicato appunto alla nonviolenza come stile politico per la pace. Di nuovo negli ultimi mesi, il Pontefice è tornato a invocare la nonviolenza come guida per l’agire collettivo.
Agire appunto. Non subire. Troppo spesso il rifiuto delle armi è associato all’inerzia o, peggio, alla resa. Al contrario, ci vuole impegno, ostinazione, coraggio per rifiutare di ridurre l’altro a corpo da soggiogare o eliminare. Ci vorrebbe coraggio da parte del mondo finanziario per rifiutare i profitti dell’industria delle armi. Ci vorrebbe coraggio da parte della politica internazionale per dare seguito alla proposta fatta da Francesco in “Fratelli tutti” di impiegare il denaro delle spese militari per costituire un Fondo mondiale per lo sviluppo dei Paesi più poveri. La pace è una scelta. Incompatibile con il business delle armi.
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