Mes, troppi conti non tornano
Eugenio Fatigante - da www.avvenire.it venerdì 22 dicembre 2023
Un giorno di ordinaria irrazionalità (per non dire follia, citando l’omonimo film).
Nell’aula della Camera va in scena uno spettacolo imbarazzante con una miscela di difficile definizione: un mix fra esaltazione euroscettica, propaganda di un presunto “orgoglio italiano” e dimostrazione di autolesionismo i cui effetti denotano incongruenze e scarsa visione d’insieme dell’attuale classe politica, fra maggioranza e opposizione. Una composizione convulsa di cui diventa improbo cogliere la trama e persino il senso logico e che pone l’Italia, ora unico stato Ue a non aver ratificato la riforma del Meccanismo europeo di stabilità, e la premier Meloni in una condizione di isolamento mai raggiunta nemmeno dalle forze europee più sovraniste delle altre nazioni.
In sintesi, il bollettino finale descrive una maggioranza uscita comunque a pezzi su un passaggio fondamentale dell’integrazione europea (con l’astensione di Noi moderati e soprattutto di Fi, il cui vicepremier Antonio Tajani si era esposto in prima persona nel dire che andava approvato, e quindi è stato in qualche modo sconfessato), un governo che si è defilato nelle fasi cruciali del voto; e, dall’altra parte, un “campo stretto”, ex largo, altrettanto dilaniato, con M5s che ha votato in modo difforme da Pd, Iv e Azione sciupando una clamorosa opportunità per mandare a casa il governo dopo appena un anno. Il tutto in un “uno-due” che segue di poche ore l’accordo che ha visto l’Italia accodarsi all’asse franco-tedesco sul nuovo Patto di stabilità nel quale, tirando le somme, la bilancia degli svantaggi e delle concessioni sembra pendere per noi più dalla prima parte, con effetti che renderanno le prossime manovre da varare più impegnative di una scalata sul Monte Bianco.
L’unica spiegazione che si può dare è quella di una mossa sul piano della comunicazione. Una sorta di “fallo di reazione” per lo smacco subito sul Patto: il governo, sotto scacco al tavolo delle regole sui conti pubblici e col timore di aver trasmesso ai cittadini la percezione di una sconfitta, ha voluto mandare, assieme a parte della maggioranza (Fdi e Lega che hanno voluto ribaltare l’ordine del giorno pur di votare subito), un contro-segnale per dar a intendere di fare la “voce grossa” con l’Unione Europea.
Una spiegazione che cozza però contro alcune deduzioni: il voto crea un legame (temporale) fra le due partite, finora negato; inoltre, se c’è un punto su cui valeva la pena dare battaglia, era semmai su quella sorta di veto che si poteva apporre alle conclusioni - potenzialmente di forte impatto per i nostri conti - del Patto di stabilità, nella speranza di strappare qualche altro “favore”, non certo sul Mes che ora si blocca a metà in tutta l’Unione. Tanto meno vale l’altro argomento addotto dal governo, cioè che il voto del Parlamento italiano può servire ora «per avviare una riflessione in sede europea». Andava spesa subito, un anno fa, e con più forza tale giustificazione, che pur ha delle ragioni: chiedendo di legare il sì italiano sulla ratifica, in una trattativa capace di coinvolgere altri Paesi e in quella logica “a pacchetto” tante volte proclamata, a una revisione completa delle norme per il salvataggio delle banche (a cui oggi devono contribuire ingiustamente gli stessi risparmiatori depositanti), così come al completamento dell’Unione bancaria avviata nel 2014, inclusa quindi quella garanzia comune Ue sui depositi bancari a cui continua a opporsi la Germania con un pregiudizio verso l’Europa del Sud. Perché non possono esistere in Europa decisioni già prese, solo da ratificare, e altre che invece restano in sospeso. Allo stesso modo è risibile la spiegazione data dal leader della Lega Matteo Salvini - e anche da altri - per cui «così gli italiani non rischieranno così di pagare per le banche straniere»: non si può infatti escludere in assoluto che una crisi possa essere vissuta in futuro anche da una banca italiana (oggi in buona salute). In tal caso, sarebbe potuto divenire utile quel “paracadute” aggiuntivo (questo sarebbe il Mes rinnovato) rispetto all’attuale Fondo di risoluzione unico che già può intervenire per gli istituti creditizi in crisi.
Poco comprensibile, poi, è anche la linea tenuta dal M5s, che per una volta ha votato con Fdi e Lega: ha mancato di evidenziare ancor più la spaccatura nella maggioranza. Inoltre è vero che i grillini rivendicano una loro coerenza, avendo da sempre contrastato il Mes (specie nella versione iniziale), ma non si può non ricordare che fu proprio il governo Conte ad avviare nel 2020 l’iter per le modifiche al Meccanismo, come venuto fuori nella violenta polemica “dei fax” scoppiata con la premier Giorgia Meloni. Le critiche, insomma, sembrano inconsistenti, le tempistiche sbagliate: tutti segnali di debolezza più che di forza. Rimane il danno d’immagine sulla scena internazionale auto-procuratosi dall’Italia, che può generare contraccolpi in futuro. “Giocare”, per così dire, con le promesse mancate sul piano nazionale ha conseguenze tutto sommato limitate al nostro ambito; farlo invece sullo scacchiere internazionale, esponendo per altro a figure barbine il ministro dell’Economia Giorgetti, tradisce il galateo istituzionale e può lasciare strascichi molto pesanti. Ricostruire serietà e credibilità è un’opera che rischiamo di pagare cara. Anche a suon di miliardi in più per i nostri conti. Sarebbe un danno che non ci possiamo permettere.
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