Kiev, Natale sotto le bombe: «La guerra va risolta con il diritto»
Giacomo Gambassi, inviato a Kiev - da www.avvenire.it giovedì 21 dicembre 2023
L’arcivescovo Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica: «Celebrare la festa insieme e con il resto del pianeta è segno di consolazione nella tragedia. Il mondo non si stanchi di sostenerci»
«È lecito festeggiare il Natale mentre siamo in guerra?». L’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, si è sentito rivolgere la domanda da un giovane padre che qualche giorno fa ha incontrato a Chernivtsi. «È un interrogativo esistenziale che la gente mi pone spesso», spiega il capo della Chiesa greco-cattolica ucraina. E lui gli ha risposto citando il film Oscar La vita è bella di Roberto Benigni. «In quel campo di concentramento il padre aveva bisogno di far gioire e sorridere il figlio: era un modo per proteggerlo. Ecco, anche qui abbiamo necessità di accendere in mezzo alle tenebre la luce della gioia che il Natale ci dona. Non una gioia mondana che scaturisce dall’uomo, ma una gioia che viene da Dio e che ci dice che non siamo soli. Il Salvatore è in mezzo a noi, è il nostro liberatore». L’arcivescovo, che in Ucraina tutti chiamano il “patriarca”, parla ad Avvenire e al Sir nella sua residenza accanto alla Cattedrale della Risurrezione di Kiev. I vetri delle finestre sono ancora in frantumi dopo l’esplosione di un drone-kamikaze intercettato dalla contraerea a fine novembre e saltato in aria appena sopra la grande chiesa. L’onda d’urto ha danneggiato anche il palazzo della Curia. E in un barattolo Shevchuk mostra i frammenti che ha raccolto vicino ai portoni colpiti dalle schegge.
«Forse la nostra gente festeggerà la nascita di Cristo nei rifugi antiaerei intonando canti natalizi, mentre all’esterno c’è il rumore dei missili o dei droni. Perché durante le feste più importanti i russi intensificano gli attacchi. Ma sono certo che il Natale sarà fonte di speranza». Il primo Natale che l’Ucraina celebra il 25 dicembre, insieme con l’Occidente, e non più il 7 gennaio, come ancora accade in Russia. Una decisione presa in maniera condivisa da autorità civili e comunità ecclesiali. A spingere per il Natale “riformato” proprio la Chiesa greco-cattolica che all’inizio del 2023 ha rivisto il suo calendario liturgico.
C’è chi considera il “nuovo” Natale una presa di distanza da Mosca.
Il Natale va liberato da una eccessiva politicizzazione. Per questo lo definisco un Natale di consolazione. Infatti il popolo ferito ha premura di essere consolato. E poi è una consolazione festeggiarlo trascendendo le nostre differenze, in un Paese che è multireligioso e multietnico. “Finalmente insieme”, ha scritto in un messaggio il Consiglio pan-ucraino delle Chiese.
Ma c’è una Chiesa che ha scelto di non cambiare: quella ortodossa ucraina che affonda le sue radici nel patriarcato di Mosca e che resta ancorata al calendario giuliano.
È una Chiesa che ormai da tempo si è autoisolata dalla società. La riforma del calendario non ha alcun intento polemico. E inviteremo tutti a celebrare la solennità. Anche per noi non è stato facile evolversi. Alle parrocchie abbiamo lasciato libertà di scelta. Ebbene tutte hanno aderito, tranne una nella regione di Kharkiv che ha chiesto di essere dispensata per quest’anno.
La diplomazia è la grande assente nella guerra in Ucraina. Fa eccezione la Santa Sede. Come dimostra la decisione del Pontefice di lanciare una missione di pace.
Siamo veramente grati a papa Francesco per l’iniziativa concreta affidata al cardinale Matteo Zuppi. È una missione che non tocca il versante militare ma ha al centro una serie di questioni umanitarie quanto mai significative. Penso alla tragedia dei bambini deportati in Russia di cui quasi nessuno si occupa: invece è veramente importante. Oppure penso alle tematiche ecologiche che sono sempre dimenticate in un contesto di guerra: ad esempio, la Russia usa la minaccia nucleare, come testimonia ciò che avviene intorno alla centrale di Zaporizhzhia. O ancora penso all’assistenza al popolo ucraino attraverso gli aiuti che vengono inviati o attraverso gli appelli all’accoglienza nei confronti dei profughi. I continui richiami del Papa alla martoriata Ucraina sono un invito alla preghiera ma anche un monito a non dimenticare la nostra gente.
L’Ucraina teme che l’Occidente non sia più al suo fianco?
Il sostegno che nei primi mesi di guerra è stato di portata globale viene adesso strumentalizzato dai partiti. Negli Stati Uniti è diventato un argomento della lotta politica. Quando si parla di Ucraina, tutti dovrebbero avere davanti agli occhi i volti dei bambini, delle donne, degli anziani che soffrono. Una sofferenza ingiustificabile che non può finire al centro di giochi politici, economici o militari. Il pianto cresce; il dolore aumenta; ma non possiamo permetterci di stancarci a difendere la nostra vita. Non abbiamo altra scelta. Ecco perché il Natale che quest’anno l’Ucraina vivrà con il mondo intero è un appello alla solidarietà internazionale. Vogliamo sperimentare di non essere abbandonati: né da Dio, né dalla famiglia umana.
La Chiesa continua a mobilitarsi senza riserve.
Secondo alcune previsioni, nell’inverno appena cominciato sette milioni di ucraini vivranno un’emergenza alimentare: più dell’intera Bielorussia che ha un milione di abitanti meno di noi. Un intero paese che ha urgenza di essere sfamato. Come comunità ecclesiale stiamo imparando a gestire questa immensa crisi umanitaria, la più grande in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Tanti aiuti sono arrivati sulla scia di un’onda emotiva. Adesso serve ripetere che non bisogna voltarsi dall’altra parte.
C’è chi ipotizza il congelamento della guerra o concessioni territoriali per fermare le armi.
Rispondo come pastore. Posso sacrificare per la mia tranquillità milioni di ucraini che subiscono atrocità nei territori occupati? Posso sacrificare i fedeli delle nostre parrocchie rimasti senza sacerdoti? Posso sacrificare i nostri due padri redentoristi arrestati da oltre un anno nei territori occupati e di cui non abbiamo notizie certe? Io posso sacrificare me stesso per loro, ma non loro per me. Il conflitto non va congelato, ma risolto. Se congelassimo la guerra, significherebbe lasciare al nemico la possibilità di riorganizzarsi per attaccare di nuovo. Nel 2024 l’Ucraina commemorerà i 30 anni dalla consegna delle armi nucleari. Un gesto profetico, anche se qualcuno lo ritiene un errore. In quel frangente il Paese si è affidato alla forza del diritto internazionale. Esso deve essere la base di un accordo di pace: non va piegato alla legge del più forte o alle offensive militari. Soltanto così la pace avrà un fondamento solido.
I traumi di guerra contagiano l’intera popolazione. Lei ha voluto che i sacerdoti fossero in grado di garantire anche un supporto psicologico. Perché?
Ci siamo resi conto che in tempo di guerra la pastorale va ricalibrata. Nelle nostre comunità aumentano i sentimenti di odio o le tensioni. C’è spesso la tentazione di trovare un capro espiatorio su quale far ricadere la colpa del proprio dolore. Così le scienze umane ci possono aiutare. Sicuramente che non si tratta di trasformare i sacerdoti in psicoterapeuti. Intendiamo aiutarli a gestire i disagi della gente. Del resto nella spiritualità orientale il prete è un medico dell’anima. Abbiamo già formato 600 sacerdoti. E sperimentiamo nel concreto un’intuizione di papa Francesco: la Chiesa come ospedale da campo.
Sarà lunga la guerra?
Quando ciascuno di noi guarda al prossimo anno, si domanda: mi porterà la vita o la morte? C’è un diffuso sentimento di paura. Forse non avremo più una guerra “calda”, ma la guerra continuerà con altre modalità: cito la disinformazione o le ritorsioni economiche. Affinché il conflitto si fermi, occorre la conversione dell’aggressore. Umanamente appare impossibile, ma dal punto di vista cristiano tutto può succedere. Penso all’Unione Sovietica: chi avrebbe mai immaginato il crollo di un tale colosso? Invece è accaduto. Mai rassegnarsi.
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