gen 30
Il direttore risponde
Coerenza ai valori. Indispensabile
Caro direttore,
mi ha sconcertata, in un recente intervento televisivo (”Otto e mezzo”, La7, mercoledì 19 gennaio), la presa di distanza dell’on. Lupi riguardo alla “coerenza” richiesta in campo etico. Ho avvertito in quell’intervento l’eco di una mentalità che, secondo me, si sta pericolosamente diffondendo in qualche ambiente cattolico. La coerenza sarebbe in contrasto con il “limite umano” che ognuno sperimenta in sé e dunque non sarebbe realistico pretenderla. Il cristiano, secondo questa nuova predicazione, è semmai tenuto alla “testimonianza”. Certo che il cristianesimo non è anzitutto una morale. Ma credere in Cristo non significa aprirsi all’azione del suo Spirito, che rende “nuove creature”? I primi cristiani, quelli che ricevevano le Lettere degli Apostoli sapevano bene che la “vita nuova” ricevuta in dono per pura grazia li abilitava a “comportamenti nuovi” e che proprio lì si giocava la loro testimonianza. La carità, nelle sue concrete ed esigenti declinazioni, era la nuova “legge”. Nelle sue radici etimologiche “coerenza” vuol dire “essere strettamente uniti”, “stare attaccati”: la morale cristiana è esattamente “stare attaccati” a Cristo, fonte di quella vita nuova che genera comportamenti nuovi. Non si discute del fatto che le nostre debolezze minano la “coerenza” alla quale siamo chiamati, ma occorrerebbe chiamare col suo nome di “peccato” la mancanza di coerenza, non affermare che è sbagliata la parola. Se non c’è, dichiaratamente, almeno un’umile ricerca di “coerenza” con l’etica evangelica, che senso ha la fierezza di proclamarsi “cristiani”? e che cosa significa “testimoniare”?
mi ha sconcertata, in un recente intervento televisivo (”Otto e mezzo”, La7, mercoledì 19 gennaio), la presa di distanza dell’on. Lupi riguardo alla “coerenza” richiesta in campo etico. Ho avvertito in quell’intervento l’eco di una mentalità che, secondo me, si sta pericolosamente diffondendo in qualche ambiente cattolico. La coerenza sarebbe in contrasto con il “limite umano” che ognuno sperimenta in sé e dunque non sarebbe realistico pretenderla. Il cristiano, secondo questa nuova predicazione, è semmai tenuto alla “testimonianza”. Certo che il cristianesimo non è anzitutto una morale. Ma credere in Cristo non significa aprirsi all’azione del suo Spirito, che rende “nuove creature”? I primi cristiani, quelli che ricevevano le Lettere degli Apostoli sapevano bene che la “vita nuova” ricevuta in dono per pura grazia li abilitava a “comportamenti nuovi” e che proprio lì si giocava la loro testimonianza. La carità, nelle sue concrete ed esigenti declinazioni, era la nuova “legge”. Nelle sue radici etimologiche “coerenza” vuol dire “essere strettamente uniti”, “stare attaccati”: la morale cristiana è esattamente “stare attaccati” a Cristo, fonte di quella vita nuova che genera comportamenti nuovi. Non si discute del fatto che le nostre debolezze minano la “coerenza” alla quale siamo chiamati, ma occorrerebbe chiamare col suo nome di “peccato” la mancanza di coerenza, non affermare che è sbagliata la parola. Se non c’è, dichiaratamente, almeno un’umile ricerca di “coerenza” con l’etica evangelica, che senso ha la fierezza di proclamarsi “cristiani”? e che cosa significa “testimoniare”?
da L’Avvenire 28/1/2011
Giovanna Zottele, Trento
Trovo che la sua riflessione, cara signora Zottele, possa essere utile a tanti nella vita di tutti i giorni e nell’impegno politico. E credo che sia sempre più forte l’attesa di serene e consapevoli prove di coerenza da parte di chi opera sulla scena pubblica richiamandosi ai grandi valori dell’umanesimo cristiano e alla Dottrina sociale della Chiesa. Penso, insomma, che per i “politici cattolici” vita privata e opzioni pubbliche all’altezza dei valori che teniamo cari siano semplicemente indispensabili. Non è sempre facile, ma ne vale la pena.
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