Un perfetto cerchio letale
Francesco Gesualdi - Da www.avvenire.it venerdì 22 aprile 2022
I drammi peggiori dell’invasione russa sono vissuti dai cittadini ucraini che muoiono sotto le bombe, ma la guerra sta provocando conseguenze anche a distanza, facendo sentire i propri effetti soprattutto sui più poveri. Le sperimentiamo noi stessi, in particolare nel settore energetico e quello alimentare. E i più poveri del mondo le subiscono ancora di più.
In ambito energetico, come ormai si sa bene, la Russia gioca un ruolo centrale soprattutto per il gas naturale di cui è il secondo produttore e il primo esportatore mondiale. La stessa Unione Europea dipende per circa il 40% dal gas russo. Già prima dell’aggressione all’Ucraina, il gas aveva subito pesanti rincari a livello mondiale trainati dalla repentina ripresa economica indotta dai massicci interventi governativi dei maggiori Paesi industrializzati ansiosi di recuperare il terreno perduto durante i lockdown anti-Covid.
La contemporanea ripartenza di tutte le economie mondiali ha creato una crescita inaspettata di domanda di prodotti energetici che il mercato ha immediatamente tradotto in aumento dei prezzi. Aumenti drogati anche dall’intervento degli speculatori sempre pronti a sfruttare le situazioni di crisi per realizzare lauti guadagni.
Le tensioni con la Russia hanno fatto il resto, ed è successo che in Europa il prezzo del gas è aumentato addirittura sei volte, con le inevitabili e arcinote ripercussioni sulle bollette delle famiglie. In Italia nel primo trimestre 2022 l’aumento è stato del 131% per l’energia elettrica e del 94% per il gas. Almeno quattro milioni di famiglie si sono trovate così a un bivio amaro: o pagare le bollette o mettere assieme il pranzo con la cena. Pranzo e cena che si fanno anch’essi difficili, a causa dell’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, che nel caso italiano sono dovuti principalmente agli aumenti dei costi di trasporto per gli accresciuti prezzi dei carburanti. Ma in molti altri Paesi i prezzi dei prodotti alimentari sono cresciuti per il ridursi delle esportazioni agricole da Russia e Ucraina.
Va ricordato, infatti, che i due Paesi in guerra giocano un ruolo fondamentale da un punto di vista alimentare, soprattutto per ciò che concerne i cereali. Ad esempio, insieme, producono il 31% del grano tenero commercializzato a livello globale e il 32% dell’orzo. Il conflitto ha fermato gran parte delle derrate destinate all’estero, vuoi per le sanzioni occidentali e le controsanzioni indirette di Mosca, nel caso della Russia, vuoi per i blocchi russi dei porti sul Mar Nero, nel caso dell’Ucraina. Con inevitabili ripercussioni sui prezzi: nel marzo 2022, un mese dopo l’inizio del conflitto, già si registrava un aumento del prezzo del grano, a livello mondiale, del 30%. Una batosta che ha colpito in particolar modo l’Africa che deve importare dall’estero il 29% del proprio fabbisogno di cereali, con punte che arrivano al 72% in Algeria, del 60% in Tunisia, del 42% in Egitto e addirittura dell’87% in Gabon.
Una dipendenza estremamente pericolosa costruita nel tempo da quello che è sempre stato l’obiettivo prioritario di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale: mettere l’Africa nella posizione di ripagare i propri debiti con l’estero.
Ciò ha portato a privilegiare la produzione di caffè, cacao, olio di palma e altri prodotti per l’esportazione, piuttosto che la produzione di alimenti a uso interno. La tesi, formulata negli anni 80 del secolo scorso, era che il cibo importato sarebbe costato meno di quello prodotto internamente, per cui i governi dovevano smettere di investire in agricoltura e soprattutto di assistere i contadini. In quegli anni, in Africa gli investimenti pubblici agricoli erano paragonabili a quelli dell’America Latina, poi ci fu la divaricazione.
Mentre in America Latina, fra il 1980 e il 2007, i fondi per l’agricoltura sono cresciuti due volte e mezzo, in Africa sono rimasti pressoché piatti. Quanto all’Asia sono stati da tre a otto volte più alti che in Africa. Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi. In Europa, il cibo assorbe mediamente il 15% della spesa familiare, mentre nei Paesi a reddito medio-basso assorbe attorno al 50%. In Nigeria, per esempio, si attesta al 44%. Nel Sud del mondo, dunque, le famiglie sono molto sensibili alle variazioni dei prezzi alimentari, in particolare di prodotti di largo consumo, come il pane. Nel 2011, proprio il costo del pane provocò la catena di rivolte nordafricane che ricordiamo col nome ambivalente di ‘primavere arabe’.
Ciò spiega perché in molti Paesi africani i governi intervengano con sovvenzioni pubbliche per mantenere basso almeno questo prezzo. Fra questi, l’Egitto dove il 70% dei 102 milioni di abitanti vive acquistando pane a prezzo calmierato dalle integrazioni statali. Per questo l’aumento di prezzo dei cereali o dei prodotti oleari, non è solo un problema delle famiglie, ma anche dei governi che ogni volta subiscono aggravi di spesa pubblica. E non è certo un caso se poco dopo l’avvio delle ostilità in Ucraina, l’Egitto ha fatto ricorso al Fmi e all’Arabia Saudita per discutere nuovi prestiti. La chiusura perfetta di un cerchio letale formato da guerre, fame e debito.
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