La crisi ucraina: perché si rischia la guerra. Le cose da sapere
Francesco Palmas - da www.avvenire.it sabato 12 febbraio 2022
Come si è arrivati alla crisi ucraina che minaccia di deflagrare in un nuovo scontro armato di grandi dimensioni? Quali sono gli interessi in campo? Le risposte dell’esperto
Escalation e de-escalation, attacco e ritiro delle truppe dal confine, accuse e negazioni. Da settimane prosegue il braccio di ferro. Da un lato la Russia del novello zar Vladimir Vladimirovic Putin (con l’ombrello protettivo dell’alleanza con la Cina fresca di rinnovo) e i sudditi ucraini del Donbass delle Repubbliche secessioniste, dall’altro l’Ucraina del comico diventato presidente Volodymyr Zelensky, la Nato (nella quale ambirebbe ad entrare, forse), la Ue (nella quale entrerebbe a piedi pari), la Gran Bretagna e l’America di Joe Biden. Basterebbe questo per capire che è una crisi difficile da decifrare. Intuire una cosa però si può: se scoppiasse una guerra alle porte orientali dell’Europa, l’intero Continente ne sarebbe travolto. Un’esplosione a catena, innescata anche dal gas con il quale la Russia tiene in scacco molti Paesi, primo fra tutti la Germania che ha anche un ex cancelliere nel consiglio della russa Gazprom ed è dello stesso partito socialdemocratico dell’attuale leader Olaf Scholz che è tra i “mediatori” della crisi insieme al francese Emmanuel Macron a caccia (dicono i suoi detrattori) più di riflettori in funzione della rielezione all’Eliseo che si risultati concreti.
Come si è arrivati alla crisi ucraina che minaccia di deflagrare in un nuovo scontro armato di grandi dimensioni? E quali sono gli interessi in campo?
Nell’est dell’Ucraina si rischia nuovamente una guerra ad alta intensità, con migliaia di vittime. La situazione è complicata da molteplici fattori. Il paese è eterogeneo per storia, lingua e religione. I confini odierni, nuovamente vacillanti, hanno pochi decenni di vita e molte incognite. L’est del Paese, oltre il fiume Dniepr, è sempre stato marca di frontiera russa, almeno dal 1654. La chiesa ortodossa, affiliata al patriarcato di Mosca, vi domina da secoli, sancendo di fatto quel continuum di valori e di comunanza spirituale con la madre Russia. La stessa Crimea, presa sotto il regno di Caterina II, fu subito russificata ed eletta ad hub strategico fondamentale dagli zar. I russi imperavano nell’area anche quando cedettero la Penisola all’Ucraina, nel 1954. Una mossa di Krusciov, dettata da ragioni di politica interna, senza conseguenze determinanti per la stabilità dell’Unione Sovietica di allora. Sornione sul mar Nero, il porto di Sebastopoli era la via maestra ai mari caldi. E lo è tuttora.
Che portata ha la Crimea nella strategia russa e perché Mosca ha chiaramente detto che un’operazione ucraina per la riconquista della penisola scatenerebbe una guerra aperta?
Dire che Sebastopoli ospita la flotta del mar Nero non spiega l’intera faccenda, perché l’area di proiezione è molto più ampia. Include tutto il Mediterraneo, compresa la base navale di Tartus, in Siria. Non è assolutamente rimpiazzabile nel breve periodo, perché nessun’altra infrastruttura russa nell’area gli è minimamente paragonabile per dimensioni. Nei piani di Mosca, svelati di recente, la flotta del mar Nero dovrebbe arricchirsi di almeno 18 unità entro il 2025. Bilancio permettendo, è previsto l’arrivo a Sebastopoli di due sommergibili convenzionali nel corso dell’anno, unitamente alle nuove fregate del progetto 11356, perché la Russia vorrebbe tornare a giocare un ruolo di primo piano nell’area mar Nero-Mediterraneo con accordi militari, basi e forniture belliche a paesi tornati amici (come l’Egitto). Il presidente russo l’ha ricordato anche di recente, in una conferenza stampa al Cremlino.
Quali sono le altre fratture geopolitiche?
Contrariamente all’est, l’ovest dell’Ucraina è appartenuto al Regno polacco per 3 secoli, poi all’Impero austriaco. È scivolato nell’orbita sovietica solo nel 1922, con alcune eccezioni, perché la regione transcarpatica è rimasta cecoslovacca fino al 1945. Qui a predominare è il cattolicesimo orientale di rito uniate, ligio al Pontefice romano. Siamo nella parte del Paese che guarda all’Occidente, più che all’infido Est, memore delle tragedie della collettivizzazione forzata di epoca staliniana. Carestie, deportazioni e repressioni hanno causato la morte di 8 milioni di ucraini, lasciando in eredità un risentimento mai sopito nei confronti di Mosca e del socialismo reale. C’è poco da stupirsi se molti ucraini optassero negli anni ‘30 per le formazioni paramilitari del III Reich e partecipassero all’operazione Barbarossa: l’invasione nazista dell’URSS. Fra gli ucraini, gli scherani di Hitler trovarono orecchie sensibili e reclutarono a man bassa molteplici collaboratori per la stabilizzazione dei territori ghermiti, oltre a tanti anti-staliniani, integrati in una divisione delle SS dal nome emblematico (Galizia). Il resto della storia è noto.
Come si configura l’Ucraina attuale?
Il Paese ha ritrovato la sua indipendenza solo nel 1991, inglobando 45 milioni di abitanti e 603mila chilometri quadrati, nel tracciato internazionalmente riconosciuto, Crimea inclusa. Ma lo scenario politico si è subito frammentato, per farsi sempre più instabile, soprattutto agli inizi del nuovo millennio, quando sono emerse faglie profondissime tra i fautori del riavvicinamento all’Unione europea e all’Occidente e i sostenitori del legame storico con la Russia. L’alternanza fra i sostenitori dell’una o dell’altra parte è avvenuta in un clima di torbidi e violenze, con il corollario immancabile di accuse di brogli. Nello scrutinio presidenziale del 2004, la polarizzazione fra est e ovest è stata enorme. Nelle regioni orientali, il filo-russo Viktor Yanukovich aveva ottenuto l’80% dei suffragi, né più né meno di Viktor Yuschenko, plebiscitato all’ovest. Entrambi si sono circondati di personaggi ampiamente corrotti che hanno portato il paese sull’orlo della bancarotta. Non migliore dei suoi predecessori, il presidente Yanukovich ha tentato di mediare. Stimava che l’aiuto europeo fosse imprescindibile. Ma Bruxelles non gli offriva più di 610 milioni di euro, a corollario dell’accordo doganale che avrebbe dovuto essere finalizzato nel novembre 2013. Il Presidente aveva chiesto almeno 20 miliardi di euro, ricevendo picche. È tornato allora alla corte di Mosca, che proponeva da tempo 15 miliardi di dollari in aiuti diretti e continuità di mini-pezzi per il gas naturale. Niente di sorprendente, visto che 240 accordi legavano già russi e ucraini, che gran parte dei settori strategici dell’economia erano strettamente interconnessi e il più degli scambi commerciali ucraini avveniva con la Russia.
Come ha reagito il paese a questa prospettiva di ritorno totale nell’orbita russa?
La rivolta di Maidan. La sola idea di un nuovo accordo fra Mosca e Kiev ha scatenato la rivolta di Maidan orchestrata dai nazionalisti filo-occidentali e antirussi, alcuni dei quali marcatamente neonazisti, come i miliziani di Pravyi Sektor, dell’UNA-UNSO, di Svoboda, di Tryzub e altri, che non hanno esitato a imbracciare le armi e a rovesciare il governo legittimo, nonostante le elezioni presidenziali fossero prossime (2015). Da quel momento in poi c’è stato un avvitamento inarrestabile verso la guerra, con responsabilità da ambo le parti, talvolta eterodirette. Il Cremlino non aveva dimenticato la lezione del Kosovo del 1998. Quando venne tradotto in russo il saggio di Zbigniew Brzezinski, l’irritazione fu grande in Russia. L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale americana suggeriva a Washington di isolare Mosca dal suo ‘estero vicino’: senza l’Ucraina, la Russia avrebbe perso la sua grandezza panslava, il controllo del mar Nero e l’accesso ai mari caldi, riducendosi a mera potenza regionale. Guarda caso, nel 1998, la NATO stava già integrando nei suoi ranghi Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ex satelliti sovietici. Quando bombardò le posizioni serbe in Kosovo, per i russi fu l’ennesimo, amarissimo calice. Era il 1999. Quell’anno, Vladimir Putin ascese al potere, con un unico obiettivo: difendere a ogni costo la sfera d’influenza tradizionale russa.
Che mosse fa Vladimir Putin sulla scacchiera internazionale?
Da allora, il Presidente russo ha mostrato di saper abbinare categorie imperialistiche del XIX secolo a tecniche politiche d’avanguardia. Tutto ruota intorno a una strategia ‘non lineare’, illustrata magistralmente da Valery Gherasimov nel 2013. In un articolo sul Corriere militare e industriale, il Comandante supremo russo ha spiegato le linee direttrici della nuova ‘dissuasione non nucleare’, sintetizzabili in due parole: intervenire e dissimulare, servendosi di un mix di strumenti mediatici, umanitari, economici, finanziari e sovversivi, con un quid pluris di mezzi militari. La Crimea e il Donbass ne sono l’epitome. Ma siamo sicuri che averle trasformate in una fortezza assediata abbia aumentato la sicurezza russa? E che dire della contro-reazione della NATO a est, delle sanzioni economiche e del sostanziale isolamento del Paese, costretto a una quasi alleanza strategica con l’ingombrante vicino cinese, avvitandosi in un rapporto che rischia di essere fortemente sbilanciato a favore di Pechino? Oggi Putin non ha la forza militare dell’Urss, eppure alza ancora la posta, soffiando sulle tensioni già in atto.
Il conflitto armato del 2014
Fin dal primo marzo 2014, migliaia di persone manifestarono a Donetsk contro le nuove autorità di Kiev, filo-occidentali. Subito si impossessarono di depositi di armi, uffici amministrativi e posti di polizia. Il 7 aprile, proclamarono la Repubblica popolare di Donetsk, emulati a Lugansk da altri separatisti. Appena eletto, il presidente ucraino Pietro Poroschenko lanciò un’operazione ‘antiterrorista’ (ATO) per tentare di riprendere le città del Donbass, finite in gran parte in mano ai separatisti. Era la fine della primavera 2014.
I giorni terribili dei bombardamenti su Donetsk
Donetsk fu bombardata con artiglierie pesanti, mentre i regolari tentavano di circondarla per spezzare gli assi logistici dei rifornimenti russi. Bisogna ammettere che, dopo i rovesci iniziali, l’esercito ucraino si era in parte riorganizzato, grazie ai consigli e ai rifornimenti di paesi amici, in primis gli Stati Uniti, pronti a concedere aiuti. Il 18 dicembre 2014, Obama firmò il Freedom Support Act, che stanziava 350 milioni di dollari di assistenza militare diretta all’Ucraina, coprendo il biennio 2015-2017. Da allora in poi, gli Usa hanno accordato a Kiev 2,5 miliardi di aiuti militari, fatti di armi, equipaggiamenti e formazione di militari ucraini.
I primi accordi di Minsk
Sul piano militare, il fallimento iniziale dell’esercito ucraino aveva costretto Poroshenko e il suo gabinetto a negoziare un primo cessate il fuoco con i ribelli, il 5 settembre 2014 a Minsk, con la mediazione dell’OSCE e del quartetto in ‘formato Normandia’ (Francia, Germania, Russia e Ucraina). Il 16, la Rada, il parlamento ucraino, promulgava la legge sul ‘regime speciale di autogestione locale’ e temporanea dei distretti del Donbass in mani separatiste. Ma il cessate il fuoco rimase solo sulla carta e, da lì a febbraio 2015, i ribelli conquistarono 1.500 chilometri quadrati circa di nuovi territori, in particolare nel saliente di Debaltsevo, trait d’union fra Lugansk e Donetsk, e più a sud ancora nell’area contesa dell’aeroporto dell’ultima delle due città.
La battaglia di Debaltsevo e gli accordi di Minsk 2
Le diplomazie erano in pieno fermento per arginare gli scontri. In Bielorussia, l’allora presidente francese François Hollande riuscì a convincere russi e ucraini a negoziare gli accordi di Minsk 2, fra l’11 e il 12 febbraio 2015. C’era un’intesa sul cessate il fuoco, il 12 stesso, lungo una linea di 450 km, con la promessa di ritirare tutti gli armamenti pesanti a 12 km dalla linea di separazione. Ma la guerra continuava, anzi s’intensificò nei dintorni di Debaltsevo. La tregua sarebbe dovuta entrare in vigore il 15, a mezzanotte. E allora i separatisti tentarono il tutto per tutto. Volevano cacciare gli ultimi regolari ucraini ancora presenti nel saliente e cominciarono a tempestare con le artiglierie la città e l’arteria di Artemivsk. I governativi assestarono l’ultimo colpo di coda: puntarono Lohvynove, ma finirono nella tenaglia nemica, lasciando sul terreno decine di morti e feriti. Da Washington, il portavoce del dipartimento di Stato tuonò contro la Russia, «responsabile del bombardamento della città». I filorussi avevano gran copia d’artiglieria e batterie di lanciarazzi intorno a Debaltsevo. Le usarono in massa. Il 15, entrò in vigore il cessate il fuoco, ordinato agli uomini sul terreno sia da Poroschenko, sia dai comandi filorussi. Ma i combattimenti intorno a Debaltsevo non scemarono. La tregua già vacillava, prima del previsto. I separatisti attaccarono la città da ovest e da est. Non paghi ampliarono il raggio d’azione al villaggio di Chornukhyne, per garantirsi ulteriore profondità strategica. Ne presero la stazione e la periferia orientale. Il comando ucraino decise allora per il ritiro da Debaltsevo, non potendo far affluire rinforzi. Il 20 febbraio, caddero le ultime sacche di resistenza ucraina nel settore di Debaltsevo, a Chornukhyne, Ridkodub, Nikishyne e Mius. In meno di un mese, i filorussi avevano conquistato 420 km2 di nuovi territori, contravvenendo agli accordi di Minsk 1.
Gli sviluppi successivi
Di lì in poi, anche le clausole militari di Minsk 2 sono state incessantemente violate. Il cessate il fuoco è stato tutt’altro che effettivo. Gli scambi di colpi si alternano a lunghe pause strategiche. Nell’agosto scorso, l’OSCE contava 1761 esplosioni provocate da bombe di artiglierie e mortai. Nell’agosto 2020 ne aveva censito solo 132. Il compito degli osservatori della Special Monitoring Mission (SMM), la Missione di monitoraggio speciale dell’OSCE è arduo: devono sorvegliare il rispetto del cessate il fuoco, ma non hanno accesso a tutte le zone, in particolare alla frontiera con la Russia. Subiscono intimidazioni personali e faticano perfino a impiegare i pochi droni disponibili, disturbati dai jammer (filo)russi nei segnali video e nel sistema GPS. Intanto in Ucraina si vive nuovamente nel terrore di un’imminente offensiva russa. Le cancellerie occidentali e il governo ucraino temono che i russi possano forzare nuovamente la mano, mentre il quartetto ‘Normandia’ appare talvolta impotente. Il governo di Kiev e i separatisti non convengono neanche sulle regole di base. I separatisti e i loro padrini a Mosca vorrebbero per il Donbass uno statuto iper-autonomo iscritto nella costituzione nazionale. Kiev rifiuta. Nel frattempo l’economia è a rotoli. Impossibile invertire la tendenza, soprattutto se le armi non taceranno.
La posizione russa oggi
Il Cremlino vuole scongiurare ad ogni costo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Vorrebbe una zona cuscinetto lungo le frontiere occidentali del paese, per ‘finlandizzare’ Kiev ed evitare di ritrovarsi le truppe occidentali nel giardino di casa. Ha già dovuto digerire l’inglobamento di 12 paesi satelliti dell’era sovietica nelle strutture militari occidentali. Teme che la Nato e gli americani possano servirsi del territorio ucraino per stabilirvi basi e radar, con nuovi intercettori antimissili, come quelli dispiegati in Romania e in Polonia, accusati di alterare l’equilibrio della deterrenza nucleare reciproca. È una questione di status e delle brame di potenza in ascesa della Russia. Per ottenere garanzie scritte dagli occidentali, Mosca sta attuando un corposo dispiegamento di forze fra la Bielorussia, il distretto occidentale a ridosso del confine ucraino e la Crimea. Sta manovrando anche con la flotta, facendo temere ai più un blocco navale delle coste ucraine, contro Odessa e Mariupol, per far scendere al compromesso il governo Zelenski. Alcuni temono che le 6 unità d’assalto anfibio arrivate dal Baltico al Mar Nero a inizio settimana siano il preludio ad uno sbarco sulle spiagge ucraine, che affiancherebbe l’offensiva aeroterrestre.
Le forze in campo oggi
I russi hanno una superiorità schiacciante rispetto agli ucraini. Hanno ammassato più di 100mila uomini al confine. Il rapporto di forze è ancora più favorevole a loro che nel 2014. Il Cremlino è in grado di lanciare dei raid aeroterrestri dal Donbass, dei raid aerei o anfibi a partire dalla Crimea o dalla regione di Rostov. Può sfondare via terra con le colonne della terza divisione motorizzata e della quarta divisione blindata, penetrando a Kharkiv e a Poltava. Ha la possibilità di marciare con la centoquarantaquattresima divisione motorizzata da Kursk e dalla Bielorussia in direzione di Kiev. Niente potrebbe fermarli sul terreno. Nonostante le riforme degli ultimi anni, l’esercito ucraino esiste ancora soprattutto sulla carta. Dei 250mila uomini totali solo 130mila sarebbero adeguatamente addestrati e molti di questi occupano posti non combattenti. Kiev ha un modello di forza molto burocratizzato.
Che cosa dobbiamo attenderci dal braccio di forza attuale?
La storia militare russa insegna tuttavia che il Cremlino quando muove in guerra preferisce usare la sorpresa. Fare tutte le dimostrazioni di forza e mostrarsi pronti a una guerra su vasta scala non è sinonimo di prontezza all’azione. Quando i russi decidono veramente di combattere non lo danno a sapere prima, non si agitano per convincere il Congresso statunitense, l’opinione pubblica e i paesi occidentali. Facendo salire la tensione al confine ucraino, puntano forse ad ottenere dei vantaggi e delle garanzie diplomatiche. Per ora non ci sono segnali chiari di un’offensiva imminente. Solo l’arrivo al fronte di molti ospedali da campo, una risorsa rara dispiegata per breve e quando effettivamente serve, sarà il vero balzo nella guerra, indicando che Vladimir Putin ha deciso e preventivato di versare molto sangue anche fra i suoi uomini.
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