Giovani che si sposano, si spendono e si spezzano: è ora di cambiar occhi
Marco Tarquinio - Da www.avvenire.it sabato 5 giugno 2021
Caro direttore,
si sposa mia figlia, ho avuto in casa i suoi quattro testimoni, tre ragazze e un ragazzo: hanno passato la notte qui. Un anno di attesa, una corsa a ostacoli tra divieti, norme e rinvii. Alla fine abbiamo organizzato una cena ristretta in un agriturismo e mia figlia e suo marito si dovranno togliere gli abiti da sposi per le norme anti-Covid. Le solite assurdità all’italiana. Assembramenti in ogni dove per aperitivi o scudetti e gli sposi “espropriati” dei loro abiti nel loro giorno più importante. Mi vergogno dell’ottusità dei governanti. La festa vera e propria viene rimandata a dopo il viaggio di nozze. C’è voluto un mese per rimettere a nuovo la vecchia 500 del ‘67, la stessa su cui andai al mio matrimonio, era del nonno Lino. Elena Sofia ha voluto fare la mia stessa scelta. Mi commuove di più questa scelta di continuità di tanti altri dettagli. Trent’anni fa circa, mio padre aveva la mia stessa età, era agitato anche lui quando mi sposai, suonava il pianoforte quel mattino per stemperare l’attesa, ora sono io in quel ruolo e ne sento la vertigine. Erano belli quei ragazzi in trepidante attesa, mi è piaciuto averli per casa e vederli a confronto con il rito antico e quasi desueto del matrimonio. Ginnastica insieme a piedi nudi in sala, appena svegli, e abbraccio di gruppo, tra risate e scherzi, poi un’uscita rapida per la colazione. Dicono che ci si sposa in pochi ormai, che il matrimonio è diventato una scelta controcorrente, roba da archeologia culturale. Eppure questi ragazzi frizzanti ed emozionati mi danno speranza: chi desidera davvero la benedizione del Padre, esiste ancora. La benedizione è un augurio di pace e di fecondità. Chi augura pace, ormai? Il sacramento li ha resi diversi, perché è il collante che reggerà la loro unione, non sanno ancora di cosa si tratta, forse nessuno lo sa per davvero, ma in un pomeriggio d’inizio giugno sono usciti diversi da quella chiesa. Un nuovo inizio. La vita disegna ampie volute, a volte incomprensibili, ma scorre impetuosa e senza rumore. Continuiamo a credere nella potenza del suo silenzio, scaverà le rocce più dure e germoglierà ancora.
Eugenio Sgarbi, Bologna
Caro direttore,
abito in una piccola frazione, siamo un centinaio di persone. Voglio scriverle di una studentessa, Sara, che ha impegnato il suo tempo per aiutare chi non ha il computer o chi rientra tardi da lavorare per fissare gli appuntamenti per il vaccino anti-Covid. A me sembra che l’attuale gioventù spesso abbia in sé germi bellissimi di solidarietà e che la volontà e la capacità di essere di aiuto in maniera disinteressata solo per la gioia della condivisione del sapere sia da sottolineare. Caro direttore, ci salveranno le nuove generazioni?
Marco Sostegni, Vinci (Fi)
Caro direttore.
la lettera emersa dopo la notizia della tragica morte del giovane Seid Visin, già promessa del calcio, è un pugno nello stomaco. Sapere che diventando grande gli anni della sua infanzia felice, adottato da una famiglia italiana, si sono trasformati in anni di sofferenza e dolore per lo sguardo della gente è qualcosa che fa male a tutti, anche a chi non ha mai sentito o provato niente contro qualcuno. «Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani non trovassero lavoro. Dentro di me è cambiato qualcosa. Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato…». La domanda che mi faccio è questa: cosa ha generato questo modo di vedere le persone, gli altri? C’è chi dice che l’Italia non è un Paese razzista. Ne siamo così sicuri? Chi da anni campa in politica con parole indegne sugli immigrati ha creato un solco profondissimo tra le persone. Giovane Seid perdonaci tutti: i razzisti, nella loro ignoranza e complicità, ma anche tutti gli altri come noi che non ci indigniamo più di nulla e troppe volte giriamo lo sguardo da un’altra parte.
Paolo A.L. , Milano
La vita e la fede, la dedizione semplice agli altri, la fatica di vivere e la morte. I giovani di oggi sperimentano e testimoniano tutto questo, proprio come i giovani di ieri, certamente alla loro maniera, protagonisti di questo tempo. Che è il tempo che quelli come me, che giovani non sono più, hanno bene o male fatto e che continuano a fare, o almeno a preparare, dai posti di potere e di parola che occupano. A volte in modo assurdamente sbagliato. Aiutano a capirlo le tre intense lettere che - ragionando in poche righe su due storie piene di luce e su una gonfia di dolore - accompagno oggi in pagina con questa mia rapida riflessione. E aiutano a capire perché possiamo avere speranza, cristiana e civile speranza, e perché dobbiamo avere più fiducia e nessun duro pregiudizio nei confronti dei nostri figli e nipoti, di questa generazione nella quale tanti ragazzi e ragazze, come noi eppure alla loro propria maniera, sanno riconoscere la vita buona e la cercano, magari vedendo e soffrendo i guasti che non smettiamo di combinare e le ingiustizie, le discriminazioni e le violenze che non sappiamo vedere e contrastare. Cambiamo occhi, se ne siamo capaci. E abbracciamoli, questi figli. E condividiamo il passo. O finiremo, noi e loro, per vivere male. E fare brutto questo Bel Paese.
Una giovane donna e un giovane uomo, come Elena Sofia e come suo marito, che si sposano al cospetto di Dio e della comunità, per amore e “per benedizione”, non meritano solo gli auguri più cari. Meritano di essere riconosciuti da noi cristiani (e magari anche da chi cristiano e credente non è) come due che si fanno uno per fare ancora una volta vero l’amore, che è «il sogno di Dio». Papa Francesco ce lo ricorda nella sua video-preghiera di giugno, rammentandoci anche che il matrimonio, sebbene faccia bene alla società, non è solo un «atto sociale»: è un “per sempre” che è autentico come ogni vera vocazione perché «nasce dal cuore», non senza pensiero e senza pensieri (o, come dice il Papa, possibili «complicazioni», che sono parte della vita) ma senza cupezza. Splendente come una 500 del ‘67 che un padre emozionato, e l’amico Eugenio giustamente lo è, ha trasformato per la seconda volta in trent’anni in carro nuziale. E splendente come il sorridente e indaffarato slancio di Sara, che si è fatta in quattro per far vaccinare senza problemi i suoi vicini di casa in un piccolo angolo d’Italia. Il mio omonimo che scrive da Vinci, nel cuore della Toscana, ce lo fa sentire e vedere in pochissime righe. E davvero è come una metafora della salvezza che viene dai ragazzi, quelli e quelle che sul serio abbiamo saputo mettere al mondo e che ci fanno sentire viva e unita la comunità di cui siamo tutti parte.
Per questo la tragedia di Seid Visin fa piegare in ginocchio, in preghiera e in pianto, e spinge ad alzarci con forza in piedi, davanti alle nostre responsabilità. In queste ore tanti, o quasi tutti, hanno parole e indignazione. E qualcuno grida più forte, e come sempre fa baruffa senza pietà per i morti e per i vivi. Ma, come stiamo scrivendo da anni sulle nostre pagine, c’è una generazione intera di nuovi italiani, che abbiamo fatto sentire stranieri in patria. Giovani italiani magari dalla pelle diversa che sono uguali a ogni altro italiano, che sono noi, ma che abbiamo trattato da estranei. Ragazzi e ragazze, persino adottati come Seid, che - gridano leader e opinionisti di successo - la cittadinanza italiana “se la devono meritare” e che perciò, ancora oggi, almeno fino ai diciott’anni se la possono scordare. C’è anche questo nella storia di Seid, e nella disperazione che infine l’ha spezzata. Che questo dolore ci svegli, ci svegli tutti, e ci aiuti a ritrovare gli sguardi giusti su ogni figlio e ogni figlia, e ci faccia fare le leggi giuste e davvero urgenti.
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