“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (Gv 10,11).
Le immagini della cultura biblica, scandita dai tempi lenti della vita nomade e pastorale, sembrano lontane dalle nostre esigenze quotidiane di efficienza e competitività. Eppure anche noi sentiamo a volte il bisogno di una pausa, di un luogo dove riposare, di un incontro con qualcuno che ci accolga così come siamo.
Gesù si presenta come colui che più di chiunque altro è pronto ad accoglierci, ad offrirci ristoro, anzi a dare la vita per ognuno di noi.
Nel lungo brano del vangelo di Giovanni da cui è tratta questa Parola di vita, Egli ci assicura di essere la presenza di Dio nella storia di ogni persona, come promesso ad Israele per bocca dei profeti[1].
Gesù è il pastore, la guida che conosce ed ama le sue pecore, cioè il suo popolo affaticato e a volte smarrito. Non è un estraneo che ignora le necessità del gregge, né un ladro, che viene per rubare, o un brigante che uccide e disperde e neanche un mercenario, che agisce solo per interesse.
“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”.
Il gregge che Gesù sente suo sono certamente i suoi discepoli, tutti coloro che hanno già ricevuto il dono del battesimo, ma non solo. Egli conosce ogni creatura umana, la chiama per nome e di ognuno si prende cura con tenerezza.
Egli è il vero pastore, che non solo ci guida verso la vita, non solo viene a cercarci ogni volta che ci smarriamo[2], ma ha già dato la vita per compiere la volontà del Padre, che è la pienezza della comunione personale con Lui e la riconquista della fraternità tra noi, ferita mortalmente dal peccato.
Ognuno di noi può cercare di riconoscere la voce di Dio; sentire la sua parola rivolta proprio a sé e seguirla con fiducia. Soprattutto, possiamo avere la certezza di essere amati, compresi e perdonati incondizionatamente da chi ci assicura:
“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”.
Quando sperimentiamo, almeno un po’, questa presenza silenziosa ma potente nella nostra vita, si accende nel cuore il desiderio di condividerla, di far crescere la nostra capacità di cura e di accoglienza verso gli altri. Sull’esempio di Gesù, possiamo cercare di conoscere meglio le persone di famiglia, il collega di lavoro o il vicino di casa, per lasciarci scomodare dalle esigenze di chi abbiamo accanto.
Possiamo sviluppare la fantasia dell’amore, coinvolgendo gli altri e lasciandoci coinvolgere. Nel nostro piccolo, possiamo contribuire alla costruzione di comunità fraterne e aperte; capaci di accompagnare con pazienza e coraggio il cammino di tanti.
Meditando questa stessa frase del Vangelo, Chiara Lubich ha scritto: «Gesù dirà apertamente di sé: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri Amici” (Gv 15,13). Ed egli vive fino in fondo la sua offerta. Il suo amore è un amore oblativo e cioè un amore fatto di effettiva disponibilità a offrire, a donare la propria vita. [...] Dio domanda anche a noi [...] atti d’amore che abbiano (almeno nell’intenzione e nella decisione) la misura del suo amore. [...]. Solo un amore così è un amore cristiano: non un qualche amore, non una patina d’amore, ma un amore così grande da mettere in gioco la vita. (…) Facendo così, la nostra vita di cristiani farà un salto di qualità, un grande salto di qualità. E vedremo allora raccogliersi attorno a Gesù, attirati dalla sua voce, uomini e donne da ogni angolo della terra»[3].
Letizia Magri
[1] Cf. Ez 34,24-31.
[2] Cf. Lc 15,3-7; Mt 18, 12-14.
[3] C. Lubich, Parola di Vita aprile 1997, in eadem, Parole di Vita, a cura di Fabio Ciardi (Opere di Chiara Lubich 5; Città Nuova, Roma 2017) pp. 576-577.
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