Il giorno dei morti e la nostra fede.
Marina Corradi - da www.avvenire.it di venerdì 2 novembre 2018
Giorno dei morti. Su gran parte d’Italia piove. Nei viali dei cimiteri le foglie gialle, fradice, sembrano già cominciare a disfarsi. Se rivedi il turgore dei germogli di marzo, gonfi di linfa chiara, l’autunno ti costringe inevitabilmente a pensare alla tua vita. Certo, non quando sei giovane, e in una comune illusione immagini che lo sarai per sempre. Ma quando invecchi: e ancora più in questo giorno, in cui si va dai morti. Di tanto affetto, di tanti ricordi troviamo sulle lapidi una vecchia foto - scelta fra quelle in cui lui, padre, fratello, sorride appena, un po’ assente. Loro, che hanno varcato quella soglia, sono per noi così disperatamente lontani, così inaccessibili. Di tanti limiti che l’umanità è riuscita a varcare, quello della morte rimane l’inviolato, l’inappellabile. E chi ama qualcuno che se ne è andato urta contro questo muro, continuamente, e ne viene respinto; ritorna, bussa, aspetta, nessuno risponde.
Il pellegrinaggio del giorno dei morti può essere anche questo, per chi non ha fede: un tenace dolente far memoria, senza alcuna speranza. Ma anche fra i credenti è facile trovare, circa ciò che ci attende, una sorta di vaghezza, di inconfessata incertezza. Benché nel Credo apostolico recitiamo: «Credo la resurrezione della carne». Tu cosa ti immagini? chiedi una sera agli amici più intimi. E quelli non sanno, oppure dicono di un grande giardino, di una nube di luce. Tu pensi che del giardino o della luce non t’importa niente: rivuoi tuo padre, tuo fratello, tua madre, vuoi riabbracciarli. Ma quasi non osi dirlo, perché non sai come sarà, il corpo della resurrezione; e soprattutto perché talmente impronunciabile suona nella modernità, questa pretesa.
Il Papa nell’Angelus del giorno dei Santi ha pronunciato però una parola che ci fa bene portarci dietro, stamane, dai nostri morti. Nella festa dei Santi, ha detto, «intravediamo il nostro futuro e festeggiamo quello per cui siamo nati: siamo nati per non morire mai più, siamo nati per godere la felicità di Dio».
Siamo nati per non morire mai più. In Cristo non moriremo per sempre, e non sono morti per l’eternità quelli che abbiamo amato. In Cristo, nella sua morte e nella sua resurrezione, ci è dato il pegno di ritrovare la vita nostra, e loro. Siamo nati per non morire mai più. I volti sulle lapidi, fermi in quel sorriso distante, così diversi da quello che noi ricordiamo, non sono persi. Li ritroveremo. Nessuno sa quale sarà la forma del “corpo glorioso”. Ma se, come ha detto una volta Benedetto XVI, «niente di ciò che amiamo andrà perduto», in quella forma non potrà mancare la voce calda di un marito, il profumo di tua madre quando ti stringevi fra le sue braccia, da bambina, e gli occhi di un figlio che se ne è andato a vent’anni; e quella sua risata, che colmava la casa. Personalmente anzi io confesso che vorrei, che attendo di ritrovare perfino la nuvola di fumo di Nazionali che circondava mio padre, e la mano gentile con cui mia sorella maggiore mi teneva, andando a mangiare il gelato sotto casa, d’estate. Da tanto tempo è morta, che non riesco più a pensarla viva. Come se, anno dopo anno, lei impallidisse, allontanandosi in un eterno altrove.
Ma «siamo nati per non morire mai più», ci dice il Papa, alla vigilia del giorno dei Morti. La grazia, perché è una grazia, di ricordarcelo, di non dubitarne, non ci cambierebbe forse la vita? Dentro a questa certezza, non saremmo meno supini a fronte di ogni peso e dolore e fatica? Come viandanti che in montagna, dal sentiero, intravedano la meta. E allora il passo si ravviva, e il fiato torna: già immaginando una tavola apparecchiata, e cibo fumante, e vino generoso: che scaldi il corpo e l’anima, nello stringersi fra compagni in un abbraccio grande. (Che è poi in fondo ciò che, come scritto dentro, domandiamo).
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