Questi 5 anni, la nuova fase, un «metodo». La lezione che resta
Marco Tarquinio - da www.avvenire.it venerdì 29 dicembre 2017
In fondo alla XVII Legislatura repubblicana si potrebbero annotare molte cose, confermare soddisfazioni, piccole e grandi delusioni ma anche amarezze o addirittura indignazioni per cose fatte o non fatte dal Parlamento e dai Governi ai quali esso ha dato - secondo Costituzione - fiducia e forza per amministrare l’Italia e per rappresentarci tutti nei consessi internazionali, a cominciare dal cantiere, faticoso e grande, dell’Unione Europea.
Altri, e ne diamo ampio conto nelle nostre cronache di oggi, nella propria responsabilità di governanti o di oppositori, si sono soffermati e - nella campagna elettorale che sta entrando nel vivo - si soffermeranno ancora su tutto questo. È normale, e giusto, che sia così. Qui, invece, oggi non avverrà. Qui non si stileranno bilanci, che del resto abbiamo già compilato con acuta pazienza, dedicando nelle nostre pagine uno spazio minimo alla “politica delle chiacchiere” e dedicandoci a spiegare la “politica delle scelte”, cioè delle azioni che hanno (e non hanno) inciso concretamente sulla vita dell’Italia e degli italiani.Qui, oggi, non si stileranno insomma bilanci secondo i liberi criteri di valore già usati con costanza (e che ci sono valsi accuse di essere o “filo” o “anti” da quanti, a destra come a sinistra, stentano a rendersi conto e ad accettare che si possa guardare a ogni fatto e valutare ogni azione di chi ha potere senza pre-giudizi e senza paura di dire la propria). Qui si cercherà di trarre una lezione semplice semplice che, se si alza appena un po’ lo sguardo verso l’orizzonte della prossima XVIII Legislatura, potrebbe essere il lascito più interessante e utile del quinquennio giunto alla fine.
Il Parlamento che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sciolto ieri sera era nato impossibile, cioè morto. Incapace di esprimere anche al Senato l’ampia maggioranza in seggi (a fronte di un esiguo vantaggio in voti sul centrodestra e nonostante l’esplosione del Movimento 5 Stelle come primo partito) che il centrosinistra aveva conquistato alla Camera grazie a una legge elettorale ormai cancellata. Tre poli, nessuna maggioranza di governo, e pochissima propensione a esercitare la virtù del dialogo parlamentare (esecrata per anni come insopportabile “consociativismo”). Avevamo immaginato e concluso in tanti, compreso chi scrive, che l’unica via sarebbe stata quella di compilare uno stringato programma di governo istituzionale, svolgere un limitato, rigoroso e condiviso compito riformatore delle regole e tornare rapidamente alle urne. Abbiamo assistito, invece, allo sviluppo di un’intera e intensa Legislatura e alla legittima espressione da parte del Parlamento di ben tre Governi: il «governo di servizio» guidato da Enrico Letta reso possibile da un mix tra convergenza e non belligeranza di Forza Italia, il lungo «governo della volontà» di Matteo Renzi basato sull’accordo strutturale tra il Pd, alcuni suoi stretti alleati del centro riformista e un pezzo di centrodestra infine rappresentato dalle sigla Ap e Ala, e infine l’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, il «gemello diverso» (come lo definimmo a caldo) del Governo Renzi, che ha reinterpretato l’arte del «fare coalizione» nella stagione politica “neoproporzionale” aperta dalla seconda bocciatura referendaria consecutiva di una Grande Riforma tesa a consolidare la cosiddetta Seconda Repubblica “maggioritaria”.
La lezione, guardando avanti, pare evidente. Le forze parlamentari in campo assumono le proporzioni decise dagli elettori. E stavolta i poli contendenti saranno almeno quattro: centrodestra (in realtà articolato e al proprio interno conflittuale persino più che nel 1994…), centrosinistra, sinistra e M5S. E se gli elettori come appare possibile e anzi probabile nella condizione data, cioè in base all’attuale divisione del quadro politico e a quanto l’inedita legge elettorale “senza premi” concordata e votata da una maggioranza trasversale lascia presagire, non assegneranno a nessuno una maggioranza autosufficiente bisognerà necessariamente «fare coalizione». E costruire da lì.
Impossibile? Impossibile è una parola che in politica, arte del possibile, non esiste. Certo, quanto sta accadendo in Germania dimostra che la regola della fatica del “fare coalizione” riguarda proprio tutti e che nulla è scontato persino quando si dispone di leader di grande qualità. Ma basta restare in Italia, ed esercitare un franco sguardo retrospettivo sulla strada non sempre lineare (e con passaggi non sempre trasparenti) percorsa dal 23 febbraio 2013 a oggi per rendersi conto che è inutile fare precipitose e magari tonanti profezie su ciò che potrà accadere o non accadere dentro le urne elettorali del prossimo 4 marzo. È questa la buona lezione che la XVII lascia in eredità: l’indicazione di un “metodo” che risponda alla democratica necessità di costruire il consenso (politico e parlamentare) e la fiducia che rende possibile e utile il governo di un Paese, e soprattutto di una grande e complessa democrazia come la nostra che si è ammalata di dissenso e di sfiducia in molti modi espressi, fuori e dentro i palazzi della politica. Un metodo da affinare e da far evolvere nella nuova Italia multipolare, perché l’avevamo guastato alla fine della cosiddetta Prima Repubblica e dimenticato (e disprezzato) nella deludente stagione del “bipolarismo furioso”.
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